In scena, la forma e il colore pongono un problema di visione, la interrogano. D’altronde il teatro è il luogo della visione. La questione è, semmai, cosa si vede a teatro: l’epifania degli enti potrebbe essere la risposta.
C’è una dimensione fotologica del teatro: una logica che regola la scrittura della luce, i modi di produzione fisica di suoi colori. Tuttavia, il colore non è tanto una proprietà della cosa, quanto il suo generatore atmosferico. Non essendo proprietà dell’ente, il colore irradia, muta gradualmente aprendo a sensazioni non solo ottico-visive, ma anche termiche (calore), tattili (consistenza), acustiche (luminosità acuta o grave), olfattivo-gustative (dolcezza / acidità).
Si apre qui un nuovo spazio percettivo per lo spettatore.
Nel colore l’occhio s’immerge in una temperatura che genera atmosfere indistinte, forme impercettibili che si danno in modo latente.
Cosa significa veramente percepire qualcosa? Prima di tutto sentire la consistenza delle cose. Avvertire la qualità cromatica dello spazio. Affinando l’attenzione, prende forma tutta una gamma di particolari inespressi: appaiono – sfocati – gli enti che stanno al margine, sul bordo degli occhi, al centro della scena. Si avverte, per esempio, la pressione dell’aria; la luce che riverbera in una sala o il suono del sistema nervoso, la particolare luminosità dei corpi degli attori e dei danzatori. Compiamo, così, operazioni complesse in modo pressoché inconsapevole: appena al di sotto della nostra soglia di consapevolezza, viviamo un mondo parallelo. Si tratta qui di esplorare la geografia delle nostre facoltà percettive implicite.
Il colore, in teatro, è una sensazione da abitare.
Enrico Pitozzi*
*Studioso e teorico, docente di “Forme della scena multimediale” presso il DARvipem – Dipartimento delle Arti visive, performative e mediali dell'Università di Bologna