La voce è transito nell’entre-deux del corpo e della lingua. Prius biologico, pulsione di presenza radicata nel corporeo, potenzialità di significazione, la voce è il gesto che espone il piano relazionale nel campo dell’audizione. Tutto sta in quel suo essere unica e irripetibile, ora, di volta in volta ora. Evento ed esposizione dell’evento. In A Voice and Nothing more, il filosofo di Lubiana Mladen Dolar convoca l’immagine del bordo tra: carne e vuoto, biologia e cultura, soggetto e l’Altro.
La voce è l’ambito nel quale il teatro, non solo mette in primo piano la soglia irriducibile allo scarto tra ciò che si dice e il fatto che si parla – l’aver rotto il silenzio con l’atto di enunciare (per dirla con Hannah Arendt) – ma negozia nuove forme di soggettivazione. Pone in atto un’implicita interrogazione sulla funzione del soggetto come portavoce. Incornicia la portata politica inscritta nella differenza tra parlare e prendere la parola. Sa erigere un piedistallo impietoso alla ripresa di parola, quella reazionaria che avalla le repressioni d’eco nello status quo, che barra ogni logica di risonanza.
Cosa nasconde la bocca chiusa, “bella come un forziere”, in I AM THAT AM I di Kinkaleri? L’ingolamento del discorso nella logomachia viscerale della ventriloqua che disdice Le serve di Jean Genet non ci pone di fronte a una voce rappresentata senza parlante? Siamo forse davanti alla traumatica voce dell’Altro? Chi parla allora? Da dove si parla? Quale parlante? Cos’è lavoce-oggetto che si ripresenta in scena in veste fantasmatica? Sono domande che riguardano le fondamenta del teatro, non l’arredamento. Artaud e Bene ce lo hanno indicato senza infingimenti.
E se Adriana Cavarero ci ha insegnato a riconoscere nella vocalità un vettore di sovvertimento dell’ordine del linguaggio e, dunque, della politica, occorre allenarsi al riconoscimento della presa di parola che coincide con la vocazione a far transitare nel discorso il censurato, il non normalizzato, l’anomalo. Occorre essere all’erta per accogliere tensioni eversive rispetto ai codici disciplinanti della grammatica e delle parole d’ordine, e dar spazio all’atipia che erode terreno al general intellect fagocitato dentro le maglie del neocapitalismo cognitivo. La voce a teatro serra questa posta in gioco.
Piersandra Di Matteo*
*Studiosa di teatro, dramaturg e curatrice indipendente. Svolge attività di ricerca al Dipartimento delle Arti . visive performative e mediali/Università di Bologna