La scena può essere pensata come una zona temporaneamente autonoma, in cui sperimentare forme di lavoro e forme di piacere latrici di una temporalità propria – non completamente appropriata, cioè, dalle logiche di lavoro nell’economia capitalista. In cui sperimentare il piacere – quello di agire, di guardare, di riposare, di inventare – come parte integrante del lavoro. Non soltanto il lavoro che avviene in scena, ma anche quello che precede l’evento, che gli sopravvive, nelle tracce che finiranno in un archivio, o nella memoria degli spettatori che vi partecipano, così come di chi in scena lavora.
Con questo intendo individuare un potenziale politico della scena, al di fuori di ogni politica della rappresentazione, o critica alla rappresentazione.
Tale potenziale ha a che fare con una particolare pratica di lavoro e con il privilegio che ha la performance di avere a che fare con il tempo come materia prima del proprio operare.
Nel testo L’autore come produttore, Walter Benjamin rifletteva così sulla responsabilità che ogni gesto artistico rivoluzionario trattiene rispetto all’apparato che lo ospita in termini produttivi: «Trasmettere l’apparato di produzione senza trasformarlo, per quanto possibile, è una procedura altamente discutibile, anche quando il contenuto dell’apparato che viene trasmesso sembra essere di natura rivoluzionario. [...] L’apparato di produzione borghese riesce ad assimilare un numero incredibile di temi rivoluzionari e propagarli senza mettere seriamente in questione la propria esistenza». Allo stesso modo il teatro non può prescindere dalla sua collocazione nell’apparato di produzione borghese in uno spazio eccezionale tra il tempo del lavoro e il “tempo libero” e ha il dovere di operare una trazione tra questi due domini, nel tentativo di trasformarli. Nel tentativo cioè di liberare porzioni di tempo in cui ospitare lavoro e piacere, in un’economia affettiva e reale.
Il potenziale politico della scena è di pensarsi come lavoro e come piacere. Di organizzarsi come lavoro, secondo principi di solidarietà e diritti, ma soprattutto come ospitalità per una creazione autonoma. Di concedersi il tempo per articolare il piacere della creazione e dell’evento, fuori da una fretta produttiva o da una logica di investimento. Di proiettare questo piacere oltre il momento dell’evento, allargando l’orizzonte della propria autonomia, occupando uno spazio maggiore di autonomia.
La questione centrale con cui la scena si confronta oggi, se pensata come spazio di azione politica, è l’occupazione del tempo: la sottrazione del lavoro teatrale a una logica produttiva che non gli appartiene, che sottrae possibilità a ogni produzione liberata.
Giulia Palladini*
*Studiosa, ricercatrice presso l’Università di Erfurt/Alexander von Humboldt fellow