Lai ha diretto il Festival di Santarcangelo per più edizioni: nel 1981 e poi, ancora, gli anni che andarono dal 1989 al 1993. Quando alla fine degli anni Ottanta iniziò il lavoro, quale è stato il contesto con il quale si è confrontato?
Nel 1989 ho assunto la direzione del Festival di Santarcangelo insieme a Daniele Brolli e a Giorgio Sebastiano Brizio. Una delle decisioni che caratterizzò quella edizione fu la collaborazione con un gruppo di Milano, parte del movimento cyberpunk, che faceva capo al centro sociale Conchetta e alla rivista Decoder. Si trattava di un momento in cui la cultura cyberpunk in Italia era un fenomeno assolutamente all’avanguardia, anche rispetto al contesto internazionale. L’idea attorno a cui si lavorava era quella del cybernet, della rete telematica. I ragazzi di Conchetta da una parte costituivano lo staff tecnico, dall’altra erano dei veri e propri collaboratori culturali. Grazie a loro entrammo in contatto con i Mutoid, invitandoli a partecipare al festival. Una delle prime questioni che si dovettero affrontare, fu la ricerca di uno spazio che fosse adatto a ospitarli; così insieme scegliemmo un’ex cava sul Marecchia. Avrebbe dovuto essere una sistemazione provvisoria, ma l’esperimento ha funzionato talmente bene che il gruppo ha deciso di restare. In quegli anni, l’intero progetto è stato realizzato non solo per la volontà del lavoro comune, ma anche grazie al ruolo di Cristina Garattoni, allora presidente del festival e Sindaco di Santarcangelo, che acconsentì al loro insediamento.
Durante il percorso pluriennale e secondo il progetto culturale che ne era alla base, come entraste in relazione con il segno artistico dei Mutoid?
Per quanto riguarda il disegno del festival, le edizioni che ho diretto erano all’insegna del pluralismo e del nuovo inizio. Il nuovo inizio di una cultura popolare, giovanile, di una ricerca teatrale ad ampio raggio che riguardasse l’avanguardia, non intesa come specializzazione linguistica in senso stretto, ma le avanguardie, al plurale. Di queste facevano parte - legittimamente - il movimento cyberpunk, i rapper. Alla base c’era il lavoro sulla cultura digitale e sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, in favore di una praxis democratica di dialogo e di interazione. Oltre ai Mutoid ci furono altre importanti presenze: Antonio Caronia, i Van Gogh Tv, il Professor Bad Trip. Ma sono stati loro a realizzare per primi quello che era il nostro sogno di allora: la stabilizzazione, un’attività che durasse tutto l’anno. E l’hanno concretizzato scegliendo di restare, occupandosi della propria autonomia organizzativa e finanziaria. Noi, invece, coltivavamo l’illusione della costruzione di un teatro con la posa simbolica della prima pietra, poi nel luogo che avevamo scelto ci hanno fatto credo un supermercato. A Santarcangelo, l’orizzonte immaginato non si è realizzato fino in fondo, ma ha sicuramente costituito una tappa significativa nella cultura non solo teatrale italiana.
Ripensando a quel periodo e ai suoi esiti, a distanza di anni la definizione di Bande e predatori solitari che lei coniò per gli artisti che ospitavate al festival, sembra quasi un vaticinio della tensione contemporanea dell’approdo comunitario. Una prospettiva che ancora ancora oggi sembra la più convincente...
C’è da dire che noi avevamo le nostre radici nel sociale. In un certo senso è stata un’intuizione: semplicemente abbiamo recepito quello che stava succedendo. Intanto il fatto che la ricerca artistica si realizzasse sempre meno negli assetti istituzionali, cercando di trovare forme organizzative autonome e di sopravvivenza economica. Poi guardando al pluralismo e al dialogo, che allora vedeva insieme esperienze molto diverse, ma destinate allo stesso pubblico. A Santarcangelo c’erano compresenza e contatto tra le persone. Ciò che accadeva nelle piazze interagiva fortemente sia dal punto di vista dei contenuti, che da quello delle presenze e della ricerca poetica, con tutte le esperienze minori, celate, nascoste. Per quanto riguarda i Mutoid, faccio anche fatica a chiamarli artisti, è riduttivo. I Mutoid si sono presentati con istanze nuove: la prima era quella di un’etica comunitaria e di un nomadismo che, al di là della scelta di stabilirsi - di avere una base ideale - era quella di essere nomadi nel mondo. Poi c’era un’etica del lavoro, fatto con materiali di riciclo, con il superfluo e i rifiuti; a riproporre quello che la società dei consumi espelle o non utilizza o spreca. Erano artigiani, nel senso più alto. Anche per questo rappresentavano una novità: era un’uscita dal mondo dell’arte per definizione e un ritorno al luogo comunitario, a quello che una volta si chiamava teatro popolare. Teatro fatto per e con la gente. In questo modo ci hanno aiutato a riprendere la vocazione originaria di un festival nato in piazza.
Cosa sta accadendo invece oggi, cosa vede nel futuro dell’orizzonte teatrale?
Il fatto è che da allora a oggi le cose sono cambiate moltissimo. C’è un disimpegno dei poteri pubblici nei confronti dell’arte di ricerca - e questo si manifesta anche nell’odierna conflittualità con i Mutoid a Santarcangelo - quindi nella progressiva ottusità e nell’assoluta incomprensione che la ricerca artistica deve essere aiutata per garantire l’incontro. Non si deve determinare o distinguere il fenomeno d’elite da quello popolare. I festival dovrebbero essere luoghi di accoglienza delle diverse radicalità; mentre ora mi sembra che si sia tornati verso una logica corporativa; magari con accentuazioni politiche, ideologiche, però sempre molto settoriali. A ciò corrisponde anche una moltiplicazione di iniziative mediane, per cui oggi ci sono decine, centinaia di festival. E quelli che una volta erano gli spazi che consentivano di produrre ciò che in altro modo non si sarebbe mai fatto, né visto, adesso sono semplicemente contenitori di prodotti, ognuno facente capo a un circuito, a una setta. Per quanto riguarda Santarcangelo credo che - come qualunque altra istanza intelligente - faccia fatica a navigare contro questa situazione generale, a distinguersi.
a cura di Francesca Bini