Perché molti spettacoli mettono in discussione la rappresentazione, pur restando dentro ai confini della danza? Di quale idea di corpo stiamo parlando, oggi? E in quale modo la danza presuppone uno spettatore? Cosa gli chiede?
Ne abbiamo parlato con due dei maggiori coreografi italiani di questi anni, Michele Di Stefano di Mk e Cristina Rizzo, entrambi presenti a Santarcangelo 13.
Michele Di Stefano - Mk
Il sistema culturale, per funzionare, deve possedere dei bordi, un perimetro. Lavoro dunque per creare una porosità dei margini della rappresentazione, per fare in modo che il contenitore generi una tensione specifica. Dal punto di vista dalla danza il tempo è tutto, si può considerare lo spettacolo come il semplice dipanarsi di un tempo condiviso fra spettatore e danzatore e c’è sempre una crepa nel momento in cui ci si mette nella presenza, l’unico luogo per me avventuroso. Il rapporto con la scena è da considerarsi in forma elementare: performer e spettatore si accorgono di essere nello stesso luogo. Che cosa succede? Mi interessa quando la danza sposta la sua attenzione dal design coreografico all’ambiente, a ciò che sta fuori. Per me la danza è fuori dal corpo, la danza si svolge accanto. Infatti lo spazio “non esiste”: è chi agisce sulla scena che lo genera nel momento stesso in cui decide di attraversarlo.
In questo senso la danza è un corpo che si pone in una estrema valutazione balistica di quello che c’è intorno. È come attraversare una tangenziale all’ora di punta: mettere a rischio il proprio corpo assecondando un ritmo, prestando attenzione a uno spazio. Mk lavora con danzatori che possiedono una preparazione tecnica alta, ma allo stesso tempo la mia idea di danza, almeno nei punti di partenza, non può escludere nessun corpo, nemmeno quelli non alfabetizzati, dal momento che tutti attraversano una strada. Alcune informazioni sono contenute nel corpo di tutti e per farle emergere non serve un “disegno”, ma una tensione potenzialmente in grado di servirci anche sul tram all’ora di punta.
Cerco sempre di mettere lo spettatore e il performer in condizione di distrarsi dalla cronologia dell’evento, per fare affiorare un altrove che non fa riferimento a un immaginario drammaturgico. Andrebbe eliminata una predominanza visiva dello sguardo, per entrare in una dimensione non incorniciata. Chiedo allo spettatore di ipotizzare che il luogo in cui si trova sia più grande delle mura del teatro: sta guardando un danzatore che agisce in una città, in una nazione, in un continente. Io sono qui, non ho niente da dire e ora comincio a muovermi, con l’ambizione di trasmettere tutto quello che c’è fuori.
Clima, Mk
Cristina Rizzo
Con il lavoro fatto insieme a Kinkaleri credevo che il tema del superamento della rappresentazione fosse già assunto, ma ultimamente mi sono resa conto che la situazione sociale, politica e culturale italiana ha minato gravemente la qualità dello sguardo, trascinandola verso il basso, quindi una domanda da porre alla rappresentazione torna urgente. Mi interrogo sul come farlo, su quali paradigmi si possano spostare preservando una dimensione comunicativa. La danza ha per sua natura la capacità di evadere dalla rappresentazione, perché la danza è sempre astratta anche quando è narrativa: si tratta di energie corporee che si mettono in circolo, punti di partenza che in un certo senso non appartengono alla rappresentazione. Come artista oggi sento la necessità di abitare la dimensione della scena, perché quello è il territorio in cui si gioca la partita adesso. Credo che ci sia il bisogno di fare delle proposizioni forti e assumersene anche il rischio, ma da dentro, ed essere in questo molto verticali.
Penso a un corpo fragile, alla fragilità dello stare nel momento. La danza è fatta di transizioni, è come se fosse sempre in deficit: non produce mai qualcosa di stabile, il suo oggetto è sempre a venire. Il corpo “super performativo” tende a fermarsi in una posa o un’altra, a rendersi disponibile al consumo; al contrario il corpo fragile viene usato ma non consumato, e in questo modo si mette completamente a disposizione dell’altro.
Sento che lo spettatore avrebbe bisogno di prendersi il tempo di guardare veramente, perché quando ci si concede di guardare si vedono molte cose, anche se non si conoscono. Il problema non è la cultura o la familiarità con la storia della danza: è come se mancasse il tempo e la voglia di guardare, eppure è tutto lì. In teatro chi sta sulla scena e chi guarda condividono la stessa azione. Tu spettatore mi guardi, ma anche io ti sto guardando: tutto accade nello spazio tra i due sguardi. Ultimamente spero che gli spettatori escano dai miei spettacoli felici, anche senza saper dire cosa è successo: significa che qualcosa si è esteso, che un’intensità è stata creata.
La sagra della primavera, Cristina Rizzo