All’inizio del Festival abbiamo incontrato Danio Manfredini, a cui è stato consegnato il premio Lo Straniero come «maestro di tanti pur restando pervicacemente ai margini dei grandi circuiti e refrattario alle tentazioni del successo mediatico». Manfredini ci ha raccontato della continua ricerca alla base del suo teatro, degli spazi sociali che hanno accolto e fatto crescere negli anni il suo lavoro, delle figure teatrali e delle visioni che più lo hanno segnato.
La tua presenza a Santarcangelo •13 è stata inaugurata con Vocazione, un progetto creato appositamente per il Festival.
In occasione del premio Lo straniero abbiamo deciso di lasciare un piccolo segno di teatro in piazza. Doveva essere una lettura, ma poi ho deciso di mandare tutto a memoria, perché le letture mi annoiano. Da qualche mese mi sto inoltrando in uno studio sulla condizione dell’artista, è ancora un germe molto fragile. Il pensiero più largo che ho in testa è legato ad alcuni testi. Ho scelto frammenti tratti dal Parsifal di Mariangela Gualtieri, altri da Testori (Conversazione con la morte), Bernhard (Minetti), Čechov (Il canto del cigno). C’è anche un frammento dai Tre studi per una crocifissione e la lezione agli attori di Amleto. Sono tutti brani inerenti alla materia dell’attore e del teatro. Invece che parlarne ho scelto dei testi che trasponessero in arte la condizione esistenziale degli artisti.
Vocazione, ph Ilaria Scarpa
Nel frattempo sei impegnato in un progetto musicale che rielabora brani del repertorio cantautorale italiano. Il tuo disco Incisioni è uscito nel 2012. Come nasce questa idea?
Il progetto musicale è partito da una proposta di Massimo Neri e Cristina Pavarotti dopo che avevano sentito i pezzi che avevo cantato per Il silenzio di Pippo Delbono. Inizialmente avevo molte reticenze, ma alla fine mi sono buttato in questa avventura e abbiamo creato Incisioni. Poi abbiamo deciso di girare con la versione live, costruendo un concerto inframezzato da alcuni testi di Mariangela Gualtieri. Anche il canto ha una funzione di antenna per la condizione umana. Il tema di fondo è quello amoroso, di quell’amore che un giorno abbandoni, un giorno cerchi, un giorno dici “ancora ancora”, un giorno “insieme a te non ci sto più”, un giorno “resta con me”. Gli amori tira-e-molla, che oggi sono la maggior parte. In questo contesto i versi della Gualtieri fanno da collante, trattano d’amore, della sua bellezza, della sua necessità ma anche del suo strazio. Man mano il concerto sta andando in una direzione più autonoma rispetto al disco, e si sono aggiunte delle mie canzoni inedite. Il progetto è in continuo movimento. Anche i musicisti che mi accompagnano cambiano spesso, ed esempio in questo momento suona con noi Antonio “Rigo” Righetti.
Questo festival non abbraccia un'unica idea di teatro per metterne in tensione molteplici, creare un discorso. Per un artista è oggi importante avere un’idea forte di teatro che guidi il suo lavoro?
Io non ho idee forti, non mi interessa averne. Non ho mai scritto manifesti, né dichiarato la mia poetica. Nel corso del tempo continuo a scoprire che si possono prendere diverse sorprendenti forme. Congelarsi nell’idea non mi incuriosisce rispetto al processo di creazione. Il mio tentativo è quello di approcciare la materia sempre come se non ne sapessi niente, come se fossi un idiota. È l’unico modo che m’interessa per stare in ascolto. Certo, essere un artista vuol dire anche avere delle qualità che si coltivano attraverso l’esercizio, attraverso le pratiche, attraverso il lavoro con il pubblico e gli spettacoli. È quello che faccio da più di trent’anni. So che ho messo molto impegno in questa professione, ma non posso dire cosa sia per me il teatro, come si deve fare. Le intuizioni mi appaiono come la punta di un iceberg; le vado a inseguire per vedere cosa nascondono di sommerso. In genere quello che trovo è un gioco più grande di quello che posso prevedere all’inizio. Per esperienza posso dire che tutte le opere che ho fatto sono sempre molto più grandi di qualsiasi concezione avessi potuto avere con la testa. E le ho scoperte con pazienza, piano piano. Certamente stando molto sveglio con la sapienza che ho raccolto in anni di pratica, ma non con un’imposizione alla materia. Noi siamo piccoli in confronto alle grandi forze, ma possiamo tenere insieme un gioco più grande. Se invece pensiamo di dominarlo abbiamo perduto in partenza. Spesso capisco solo alla fine perché mi sono inoltrato in un’avventura artistica. Così è accaduto per Il principe Amleto: gli abbiamo dedicato tre anni, e solo alla fine ho realizzato che stavo lavorando sul passaggio di un essere umano da uno stato di disponibilità, generosità e spiritualità, a uno stato di violenza, inganno, assassinio. Dalla luce all’ombra, un passaggio che può accadere in ognuno di noi, per rabbia, per ribellione, a causa delle ingiustizie subite. Da tutta la complessità tematica del testo di Shakespeare, si possono estrarre infinite altre complessità, ma quale scegliere? Ogni scelta è per me frutto di un lunghissimo processo di lavoro.
Vocazione, ph Ilaria Scarpa
C’è uno spettacolo che ha aperto più di altri il tuo sguardo sul teatro?
Ho visto La classe morta di Kantor che avevo iniziato a studiare teatro da un anno, un anno e mezzo. Ero proprio alle prime armi. Il primo vero spettacolo che vidi è stato quello; fui folgorato, non pensavo che il teatro fosse così e in seguito ho visto rare volte spettacoli di quella potenza. Mi impressionò molto e lasciò un forte segno. Allora costruivo dei pupazzi, dei piccoli manichini alti forse trenta, quaranta centimetri, e riprodussi tutte le figure che avevo visto nello spettacolo (poi, un’estate in cui non avevo una lira, sono andato al mercatino dell’Unità e li ho venduti tutti in due ore, non so più neanche che fine abbiano fatto). Quello spettacolo mi risuonava dentro, pur nell’inconsapevolezza dello sguardo che potevo avere allora; riuscivo a leggere gli accadimenti scenici pur non capendo nulla del testo in polacco. Percepivo la parola come un ulteriore colore drammatico, come una pennellata sopra la visione. Col tempo mi sono reso conto che il lavoro di Kantor è stato quello che più ha segnato il mio percorso, anche se non direttamente, insieme a quello di Pina Bausch, come un pensiero sottostante che emerge nelle opere. Ci sono delle tracce anche in Cinema Cielo. Mi rendo conto che, dall’esterno, i manichini che per me avevano la funzione di rappresentare gli avventori del cinema provocano un immediato rimando alla visione kantoriana. Kantor per me è la “stella” degli ultimi cinquant’anni del teatro novecentesco, la sua “complessità povera” è la sua forza.
Il tuo lavoro è nato ed è cresciuto per anni in luoghi occupati di Milano. Questi spazi, un tempo estremamente attivi e fondamentali per lo sviluppo e la cura delle arti, stanno scomparendo.
È un momento molto difficile. Quelli sono luoghi che hanno saputo, in un sottobosco completamente nascosto, accogliere e far crescere degli artisti che altrimenti non avrebbero potuto permettersi di coltivare un’arte che è sempre stata per ricchi. I centri sociali a Milano come Isola, Santa Marta, Leoncavallo, sono stati dei luoghi dove la gente ha cominciato a pensare che si potesse fare teatro al di fuori del mondo accademico. Insieme a degli anarchici, nel 1990, occupai uno spazio a Milano, l’Unione sindacale italiana (Usi). Lì ho lavorato per vent’anni. Lì ho creato La vergogna, Tre studi per una crocifissione, Al presente, Cinema Cielo, e in parte Il sacro segno dei mostri. Così come prima avevo lavorato a Il miracolo della rosa e La crociata dei bambini al Leoncavallo. Nel 2009 hanno sgomberato l’Usi e proprio tre mesi fa hanno fatto crollare tutto l’edificio con la dinamite. Ora c’è un buco vuoto in Viale Bligny 22 a Milano, e nei vent’anni di storia per me e per gli artisti che ci hanno lavorato. Quel terreno è stato comprato dalla Bocconi che ci costruirà un residence.
Le attività legate allo sviluppo economico sono privilegiate rispetto a quelle che si occupano di “fare anima”, di fare arte. Questo, anche in una città come Milano, ha creato disorientamento da parte dei giovani. Quando i ragazzi mi chiedono se vale la pena di entrare in accademia, io dico di sì. Almeno sanno dove andare a studiare, hanno uno spazio per provare. Tre anni di accademia non risolvono il problema attoriale; è come aver fatto l’asilo, da quel punto di vista. Ma perlomeno è uno spazio di lavoro comune, l’unico che resta in un momento di grande isolamento. Io stesso non ho uno spazio per provare in città: chiedo residenza a La corte ospitale di Rubiera, recentemente sono stato al teatro occupato di Pisa, oppure a quello di Giovinazzo, vicino Bari. Sono uscito dalla produzione Ert nel 2009; è stata una scelta che sto pagando. Una scelta del tutto consapevole, sebbene io sia grato alla produzione per i lavori che abbiamo fatto insieme. Ma queste strutture vivono di logiche che impongono la creazione di uno spettacolo all’anno, invece per me un lavoro ha bisogno di una lunga preparazione, è come un terreno da dissodare. Altrimenti si rischia di infilarsi in un meccanismo che costringe gli artisti a riprodursi sempre uguali a se stessi.
In quali condizioni si trovano a lavorare oggi gli artisti?
Si sta viaggiando su crinali molto delicati, tuttavia gli artisti continuano a creare delle cose. In cima alla piramide del teatro ci sono loro; non succederebbe niente nell’arte teatrale se loro non mettessero le loro ossa e la loro carne sopra il palco. Paradossalmente, oggi pare che l’artista debba lavorare per sostenere strutture che invece sono nate per sostenerlo. Gli si chiede di lavorare gratuitamente, o a cifre miserrime per le prove e bassissime per le repliche. Io non credo che si possa chiedere agli impiegati di un ufficio di produzione di andare a lavorare per due mesi senza stipendio. Non ci andrebbe nessuno. Agli attori invece viene chiesto, con la scusa che a loro piace il proprio lavoro. In questo momento questa ideale piramide è ribaltata: in cima c’è la struttura del sistema di produzione, distribuzione, organizzazione, la critica, i giornalisti. Al di sotto resta chi in realtà dà il segno fondamentale, il segno artistico, che è frutto di lavoro, di studio, di fatica e anche di rischio. La gerarchia è completamente capovolta. Così gli artisti scadono sempre più in qualità perché non hanno condizioni adatte a creare.