Abbiamo incontrato Alessandro Leogrande, presente a Santarcangelo in occasione della consegna del Premio “Lo straniero”. Scrittore, giornalista e vicedirettore dell’omonimo mensile diretto da Goffredo Fofi, nel 2002 Leogrande ha diretto il “Quaderno del Festival”, testata critica e di informazione.
Lei ha partecipato alla prima edizione del “Quaderno del Festival” nel 2002, che cosa può dirci del clima di quegli anni?
Vista retrospettivamente, quella è stata una grande stagione. Si aveva la sensazione che tante cose stessero avvenendo in contemporanea e nella pluralità dei loro percorsi. Penso aI primo Ascanio Celestini, alla Socìetas Raffaello Sanzio o al Teatro delle Albe. Evitando il rischio di cadere in un’agiografia del passato, mi sembra che quello sia stato un momento molto importante per il teatro di ricerca e che ci fosse una situazione di maggiore vitalità e di equilibrio complessivo anche al di fuori di Santarcangelo: altri festival funzionavano bene, e in quegli anni il Teatro di Roma era diretto da Mario Martone. C’era sostanzialmente un continuum di frequentazione del teatro, dalle stagioni ai festival, dal centro al nord Italia. Poi è accaduto che molti discorsi di allora si siano esauriti nel tempo, un po' per ragioni istituzionali ed economiche, un po' per le vicende personali dei gruppi, che andrebbero analizzate singolarmente. In ogni caso c’era una sorta di reazione a catena di intelligenze, che da un forte centro emiliano-romagnolo aveva una sua risonanza anche su scala nazionale.
Il 2002 è stato l'anno di raccolta delle reazioni all'attentato delle Twin Towers e ai fatti di Genova. In che modo il Festival e chi lo ha attraversato, a partire dai pensatori che abitavano la vostra redazione, ha affrontato la relazione con quella realtà ancora in subbuglio?
Proprio nel 2002 durante il Festival ci fu un incontro con Luca Casarini, uno dei leader del movimento no-global in Italia, e ricordo che scrissi un editoriale sul “Quaderno del Festival” focalizzando l’attenzione su ciò che stava accadendo in quegli anni. Avendo fatto parte in prima persona del movimento genovese attorno al G8, da un lato credo che uno degli errori dei movimenti politici sia quello di non porsi il problema delle arti, dall'altro verifico che, nella maggioranza dei casi, chi fa arte non si interroga sul rapporto con la realtà. Non mi riferisco esclusivamente a un reale ‘politicante', ma a un reale più esteso. Trovo puerili le polemiche contro il realismo o contro il rapporto tra artista e società. Qualsiasi cosa costruisci, intenzionalmente o non intenzionalmente, è imprescindibile da un dialogo col mondo, a maggior ragione quando si fa arte. È per questo che non comprendo l’idea del rifiuto della società, dal momento che non possiamo non esserne imbrigliati. Il problema è come nominare il mondo, come raccontarlo, qual è la trasfigurazione artistica dello sguardo, fino ad arrivare a dove ci si colloca, e a quale sia la posizione scelta tanto dal punto di vista professionale, quanto da quello morale. Il punto, poi, è come fare tutto questo oggi. Io credo che l’unico modo sia quello di elaborare delle forme non medie di racconto. E le strategie possono essere molte, per esempio scavare nelle profondità storica, far reagire le epoche tra loro. Ragiono in termini oppositivi rispetto all'esistente, forse perché una delle mie ossessioni è reagire alla gabbia di eterno presente in cui viviamo, un tempo che procede per dimenticanze e nel quale far riemergere elementi rimossi del passato non significa semplicemente presentare un pensiero in modo politicamente corretto, ma anche creare un cortocircuito, o talvolta, come direbbe Benjamin, spazzolare la storia contropelo. In campo teatrale, credo che per esempio il lavoro portato avanti dall’Accademia sull'arte del gesto di Virgilio Sieni sia un percorso profondo e sano nel rapporto con la realtà, nella sua capacità di far affiorare una memoria sepolta che è immediatamente storica e non solo individuale. Ed è un teatro che non si pone il problema del racconto della realtà, ma seleziona alcuni dettagli e li fa emergere.
I festival hanno in sé la potenzialità di farsi luoghi di formazione, sia per lo spettatore che per chi appartiene professionalmente all'ambito di riferimento. Quali sono oggi i luoghi virtuali o fisici che svolgono questo ruolo?
Personalmente non credo ci siano spazi sociali o culturali di per sé salvi o salvati. Forse c’era un’epoca in cui poteva succedere, ma ormai l’omologazione ha prevalso ovunque, perfino nelle estreme periferie di città come Napoli, Palermo o Taranto. In Italia appare chiaro come ci siano esperienze di qualità realmente eterogenee e, tra queste, un festival come quello di Santarcangelo è un’isola franca. È certo, comunque, che lo spazio critico dei giornali e delle riviste si sta riducendo, così come sui blog che, diversamente da quanto si pensava, non hanno fatto emergere grandi possibilità dall’orizzonte virtuale. Questo anche per mancanza di fondi, perché per un lavoro che richiede il ritorno quotidiano e l’aggiornamento costante, il dato economico è fondamentale, altrimenti è inevitabile che si determini una sorta di selezione negativa, un’agonia che forse sarebbe meglio arrestare sul nascere. Chiedersi come agire non è semplice, perché ci sono sempre un fare individuale e uno collettivo. Penso però che oggi bisognerebbe essere radicalmente al passo con i tempi, guardare lo scenario sociale e geopolitico complessivo e confrontarsi con il rapido cambiamento di ‘strumenti tradizionali’, come la critica e la scrittura. È un discorso che in senso ampio riguarda la relazione con il mondo e, più strettamente, il lavoro culturale sulle arti. Compreso il teatro. Negli ultimi anni abbiamo avuto a che fare con una scena che è profondamente mutata, quindi è necessario cogliere le variazioni in divenire, senza arroccarsi sulle proprie posizioni. In più, c’è da porsi il problema della continuità, a garantire la sedimentazione delle esperienze e la crescita.
In che modo i teatri occupati rappresentano dei luoghi di effettiva crescita culturale e di incidenza sul reale? Ci chiediamo se siano dei reali luoghi di ripensamento del contesto presente...
Produrre un’opera in uno spazio occupato e non in uno stabile riconosciuto non la rende positiva a prescindere, così come un articolo di denuncia non è per forza un buon articolo. Dal punto di vista artistico bisogna avere un’esigenza critica rispetto al proprio lavoro e a quello di questi luoghi, presunti liberi. Di conseguenza, in un mondo in cui le opinioni esplodono in maniera narcisistica, vanno ridiscussi il posto della critica e le sue griglie valutative. Nel teatro c'è un elemento più genuino: l’orizzonte critico deve fare i conti con la fisicità dei corpi (attori, spettatori) che in qualche modo tutelano la radicalità e la preservano, anche se non è detto che questo accada sempre. Considererei poi il tema “Cultura: bene comune”, che è diventato un dogma un po’ pernicioso e pericoloso. Aldilà della retorica, c’è un problema di terminologia di cui dobbiamo preoccuparci senza che passino questi slogan: la cultura è come l’acqua? O è piuttosto il luogo del conflitto? Nel momento in cui si pone l’opposizione bene comune-bene privato la si sta già depotenziando, viene meno la riflessione sul costruirsi delle idee dominanti e sulla loro parvenza di universalismo. E ancora, nell’ultimo periodo si sono imposti una serie di modelli di riferimento che hanno portato al moltiplicarsi di esperienze molto simili tra loro. La domanda è quanto queste, di fatto, smuovano la situazione attuale e quanto permettano di comprenderla.