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CONVERSAZIONI > Chiusi fuori per un intervallo: intervista a Leonardo Di Costanzo

La giornata de L’intervallo si apre con un’inquadratura fissa di Napoli all’alba, sullo sfondo il Centro Direzionale. Non ci sono il Vesuvio o le Vele di Scampia: già da quella prima visione, che sarà la stessa dell’ultima scena, ma a notte fatta, non c’è l’intenzione di “vendere” Napoli, come di frequente succede quando ci si accorge che la morbosità dello spettatore preferisce indulgere sui morti ammazzati o sulle storie del Sistema camorrista.
Leonardo Di Costanzo, dopo anni da documentarista, si cimenta nella regia della prima opera di finzione, che ha vinto il David di Donatello per il miglior regista esordiente e il Premio Lo straniero, assegnato durante il Festival di Santarcangelo da Goffredo Fofi.
Salvatore è un ragazzo che vende granite; una mattina, mentre sta uscendo con il carretto, viene bloccato da un uomo in scooter che lo chiude dentro a un luogo abbandonato – l’ex ospedale psichiatrico “Leonardo Bianchi” – e che gli affida il compito non far scappare Veronica, una ragazza che Bernardino, boss del quartiere, vuole incontrare la sera, dopo la segregazione. Salvatore è estraneo alle vicende del Sistema, ma rivuole il suo carretto, e suo malgrado rimane costretto nel ruolo del carceriere.
Napoli rimane chiusa fuori e inizia una favola. La Camorra è una funzione narrativa, perché ciò che li costringe nell’enorme blocco ospedaliero immerso nella vegetazione e nell’abbandono potrebbe essere qualsiasi altro soggetto: la torre del castello di una strega cattiva, oppure la villa dove si scappa per salvarsi dalla peste a raccontarsi le storie. È questo il miracolo che si compone in questa storia d’infanzia che Di Costanzo ha scritto con Mariangela Barbanente e Maurizio Braucci, dando vita a un racconto di formazione pieno di grazia.
“Succede che gli uccelli che vivono in gabbia anche se apri la porta non fuggono”, dice la voce fuori campo di Salvatore all’inizio del film: è la premessa, ma potrebbe essere anche la morale finale; “la favola insegna che” di Esopo. I due ragazzi all’inizio si studiano, si osservano, Salvatore è comunque un po’ imbambolato per questa ragazza che, nonostante i primi atteggiamenti da adulta, recupera velocemente la voce dell’infanzia. Si perdono nel bosco intorno all’edificio, trovano una cagna che ha appena partorito, nei sotterranei scoprono una barca e si immaginano di essere nel programma televisivo “L’isola dei famosi”; in mezzo a un acquazzone, riparati in un piccola serra, si raccontano storie. Tra queste quella di Gelsomina Verde, una ragazza che non voleva schierarsi nella guerra nel clan del suo quartiere e che finisce sparata e bruciata in una macchina per aver fatto una scelta che non era possibile fare: Salvatore racconta questa storia come una favola che fa paura, in Veronica invece risuona con più inquietudine; ormai sono le cinque meno un quarto e bisogna tornare all’ingresso dell’edificio. Bernardino arriva nel buio, si è fatta sera e il giovane boss vestito bene vuole sapere, dopo la punizione, qual è la scelta di Veronica, mentre Salvatore aspetta giù spaesato e in attesa di recuperare il suo carretto delle granite.
Il regista non indugia mai un attimo di troppo nella ripresa dei due ragazzi, non costruisce consolazione nello spettatore usando la “bella adolescenza”, non scivola mai nel voyeurismo tanto in voga. Su Veronica non ci sono sguardi forzati sulla dimensione femminile e questo aiuta a farne un personaggio forte e credibile. Chi ha girato – e chi ha scritto – questo film dissotterra antichi principi, quelli che fanno raccontare una storia attraverso la rabbia e la delicatezza di chi osserva la prospettiva dell’uguaglianza tradita costantemente. Napoli è rimasta chiusa fuori per un intervallo, solo il suono, un sonoro gestito magistralmente, tutto in sottrazione, ci ha accompagnato – senza musiche ruffiane o tarantelle posticce – e ricordato con un basso continuo che quella bolla spaziotemporale si è generata in mezzo a una città che come Crono è capace in ogni momento di mangiare i suoi figli.

Intervista a Leonardo Di Costanzo

Come sei riuscito a non “vendere” Napoli e a raccontare un’altra storia?
Ho fatto documentari per la maggior parte ambientati a Napoli, e ho sempre cercato di guardare questa città usando le sue particolarità e le sue bizzarrie, per rappresentare le contraddizioni della modernità tentando di prescindere dal luogo dove queste si manifestano. A Napoli i ragazzi parlano, gesticolano, usano il corpo in un certo modo, ma interpretano disagi e contraddizioni che appartengono a tutti. Quando abbiamo scritto “L’intervallo” con Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente ci siamo sforzati di raccontare i ragazzi e la loro adolescenza. Fin dall’inizio il progetto escludeva il “fuori” (infatti il film è tutto girato nell’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi), senza però eliminare il dialetto e un modo di pensare e stare al mondo che è dei due protagonisti. Quello che sapevo lavorando al film è che volevo un ragazzo e una ragazza chiusi in uno spazio abbandonato che fosse lontano dalle connotazioni sociologiche della città, della periferia, del quartiere, del vicolo; che la scenografia non facesse da schermo, da filtro per i ragazzi: il centro del film dovevano essere loro con il proprio modo di immaginare futuro e paure. Ho deciso di tagliare la testa al toro e mettere la realtà fuori: nell’immaginario collettivo Napoli è presente e non c’è bisogno di mostrarla, ma si possono usare gli stereotipi, governandoli senza diventarne schiavi e usandoli per far trovare allo spettatore dei riferimenti. Del resto, il cinema da sempre dialoga e gioca con i cliché. La sfida è riuscire a non fermarsi al compiacimento.

Quale immaginario ha ispirato l’idea e la struttura de L’intervallo?
Non ho costruito un immaginario, fin dall’inizio mi sono portato dietro gli automatismi del documentario, in fase di scrittura abbiamo incontrato molti  ragazzi e cercato di capire che cosa ci suggeriva la realtà. Sono stati utili anche i molti sopralluoghi alla ricerca di posti abbandonati che facessero dello sfondo un soggetto attivo nel film. Abbiamo solo ascoltato e messo insieme – senza inventare niente – e ci siamo impegnati molto nel capire in quale posizione era giusto mettersi per raccogliere queste informazioni, per cogliere l’essenza di ciò che abbiamo osservato.

Due segni che rimangono impressi sono l’immagine di un camorrista moderno, alla moda, e la delicatezza nel raccontare la questione femminile nel Sistema.
Mi ha colpito ultimamente l’arresto dei figli dei boss di Scampia, che reggevano tutto l’impero: erano ragazzi vestiti come degli universitari, come dei figli di notai. Era chiaro che questa nuova generazione era diversa. Mentre facevamo il casting avevo individuato un tipo appoggiato a una macchina e lo volevo far venire a fare le prove, ma mi hanno fermato perché era uno “vero”, ed era vestito di tutto punto come poi abbiamo vestito il boss Bernardino nel film. Ancora una volta è stata la realtà a suggerirci la cosa.
La camorra è usata come un espediente narrativo: in fase di scrittura è venuta dopo, perché volevamo giustificare il motivo per cui i ragazzi stessero lì dentro. Ma dal momento in cui la criminalità organizzata è nella storia, bisogna capirne gli atteggiamenti e le imposizioni e che cosa significa il contatto stretto con quella mentalità. E soprattutto che cosa provoca: i due protagonisti sono sballottati tra la titubanza di Salvatore, che non sai se reagisca per maturità o per viltà, e il desiderio di rivolta di Veronica.
Il gesto di ribellione io lo vedo come femminile: le donne, secondo me, tendono di più a non accettare il sistema delle regole sociali che ti impongono dei comportamenti. Nei paesi in via di sviluppo gli uomini giocano a carte e si ubriacano, e le donne si tirano su le maniche e lavorano. Le donne sono meno disposte a accettare la realtà e la combattono con molto coraggio e molta più determinazione.

Mi ha colpito particolarmente la quasi totale assenza di musica nel film e un suono costruito con l’ambiente. Come avete lavorato?
Abbiamo scelto, molto consapevolmente, di inserire pochissima musica; da spettatore mi domando spesso come mai nei film venga inserita, perché dovrei essere più libero di sentire e di immaginare il “mio” film; la musica, frequentemente, ti dirige in modo totalitario. Porta lo sguardo dello spettatore verso delle cose che il regista ha immaginato. Noi abbiamo lavorato con i rumori dello spazio ambientale più che su un commento sonoro.
Durante il film ho provato a aggiungere suoni o musica, ma trovavo eccessive anche scelte estremamente minimali. Quello sul sonoro è il lavoro più complicato che abbiamo fatto, e al quale abbiamo consacrato molte energie: non escludo che abbia preso più tempo il montaggio del suono che quello dell’immagine. Lo spettatore deve immaginare tutto quello che non vediamo con le immagini: l’esterno del manicomio abbandonato e la città, esistono grazie all’ascolto. Volevamo un suono che non fosse eccessivamente significante, che esistesse, che evocasse la città, senza che fosse sottolineato mille volte. Senza dire allo spettatore: “Allora hai capito? Allora hai capito?”.
Nei dibattiti alla fine delle proiezioni mi trovo a parlare con gli spettatori e mi sembra di riascoltare tutta la massa enorme di discussioni che noi abbiamo avuto durante la preparazione dei film, forse anche per la libertà che hanno avuto nell’immaginarlo. I film sono pieni di incoerenze, di false viste, di scelte prese e abbandonate che poi sono sopravvissute anche solo parzialmente nella narrazione, in piccoli segni a volte sonori, a volte degli attori. Mi sembra che lo spettatore del film riesca a seguire le tappe delle contraddizioni che abbiamo incontrato noi nel farlo.

Il finale non lascia spazio a dubbi sull’esito negativo della vicenda, ma tutto il film racconta una tensione diversa, che sopravvive anche quando la storia si chiude/ finisce.
Una volta c’è stato un dibattito in sala, proprio a Napoli, tra un giudice del pool antimafia di Napoli e una signora. Il giudice diceva è molto interessante e condivido la visione pessimistica del vivere questa realtà, la mafia in questo momento è più forte. D’altro canto la signora ha risposto che Veronica non si lascia prendere, può sembrare che in quel momento ceda, ma non è vero.
La signora ha rappresentato un momento preciso, un’inquadratura: nel momento in cui Bernardino, il boss camorrista, le mette il braccialetto, il segno di proprietà, volendo con quel segno dire “tu ci appartieni”, passa un aereo, e Veronica solleva lo sguardo verso il cielo, e sembra pensare “mettimi pure il braccialetto, tanto non mi avrai mai”. Questa è la lettura che la signora del pubblico ha dato di questa cosa: la cosa interessante è che questo gesto di alzare lo sguardo è un’invenzione dell’attrice Francesca Riso. Tutto il film è girato accanto all’aeroporto, e ogni dieci minuti decollava un aereo e noi abbiamo deciso di non fermarci – come succede usualmente durante le riprese per non avere problemi durante il montaggio del sonoro – e di provare a tenere dentro tutti gli elementi che interrompevano e che potevano dar fastidio. Abbiamo deciso di usare gli imprevisti nella funzione drammatica: una pioggia improvvisa, un cambiamento di luce, la presenza di un rumore. L’aereo è passato realmente, non ho detto a Francesca di alzare lo sguardo, l’ha fatto lei e quindi il documentario anche questa volta ha vinto sulla finzione. La spettatrice della proiezione a Napoli ha dato una lettura al film che io non avevo dato, e che non volevo dare, confermando un pensiero del quale sono assolutamente convinto: il film lo finiscono gli spettatori. Sono invidioso di quella condizione: il film continua a vivere e costruirsi in ogni sala, a prescindere dal mio controllo. Non posso sapere cosa succede oltre il momento della chiusura dei titoli di coda.

Questo articolo fa parte anche dello Speciale Santarcangelo •13 sul blog Minima et Moralia


di Nicola Ruganti


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