Arrivato al luogo dell’appuntamento per Agoraphobia, una piccola piazza ai piedi del vecchio borgo di Santarcangelo, ho chiamato il numero che campeggiava su numerosi cartelli appoggiati ai muri. Al telefono, una flebile voce di donna canta una strana nenia per poi esclamare: «La cose peggiore sarebbe che mi ascoltassero». Il suo è un soliloquio che si fa rito quando la voce diventa sempre più udibile e vicina trasformandosi in grida, e una donna si palesa in lontananza. Ci attraversa con le sue parole, a volte bisbigliate, a volte urlate, quasi fosse una sorta di profeta post-moderno: una protesta individuale, un appello alla solidarietà, un'interrogarsi sulla dialettica io/tu, noi/loro, ricevere/perdere. Noi ascoltatori, seguendo la performer Daria Deflorian nel suo aggirarsi tra le vie di Santarcangelo, interpretiamo diversi atteggiamenti possibili: alcuni la fobia del contatto, altri il trionfo della vacua curiosità, molti la banalità della derisione. Il contatto col pubblico è occasionale: spaesante quando la donna si rivolge a ignari passanti che, malcelatamente infastiditi, provano a scappar via; interrogante quando i suoi occhi incrociano quelli di chi ha scelto di telefonare e di rispondere all’invito trovato sui cartelli affissi nella piazza. Perché restiamo ad ascoltare una voce che si (ci) interroga sulle sue (nostre) paure, desideri, ansie, sensazioni, visioni, inquietudini?
[Foto Lele Marcojanni]
Questa la domanda che ritorna una volta spento il telefono. Agoraphobia ci interroga sulle zone d’ombra della relazione tra individuo e collettività, sul quotidiano camminare senza alzare lo sguardo verso l’altro, sull’oblio della pratica dell’ascolto partecipato. Ma la sua carica sembra non deflagrare del tutto: perché è un'opera che pur non essendo site-specific è in parte disinnescata dal suo accettare il compromesso di essere nel programma di in un festival di teatro in piazza. Io spettatore sono lì, nel luogo dell’appuntamento, e mi aspetto che qualcosa accada. Ma cosa significherebbe portare questo grido in un'altra piazza? Quale il vero rischio? Quale incontro con la realtà? Restano la voce di Daria Deflorian e le ambigue invocazioni di Lotte Van Den Berg: una voce che mi sussurra e grida all’orecchio parole che mi chiedendono di fermarmi per un attimo ad ascoltare, di arrestare l’inesorabile scorrere del quotidiano, di astrami per pochi minuti dal flusso della folla; sono ancora in grado di riuscirci?