I cinque minuti di celebrità sono novecenteschi. Il verbo di oggi è apparire nelle apparizioni altrui, prendere parola su parole non proprie, aggregare gesti in contesti che altri predispongono. Se il rovescio della medaglia non ci parlasse di un narcisismo che contagia tutti, tale inesorabile spostamento non farebbe problema. Dato che non è così, non si può che partecipare per osservare, e osservare per discutere. Una società siffatta ha il teatro che la rispecchia, e che prova ad analizzarla, così si spiega la proliferazione un po' incontrollata di molti spettacoli “relazionali”, assecondata senza troppi pensieri da molti addetti ai lavori: difficile stare seduti, vietato solo guardare, molto probabile essere chiamati a eseguire azioni senza le quali l'opera non potrebbe procedere. Santarcangelo · 13, nel primo weekend, ha proposto spettacoli in questa direzione, dall'indagine pseudosociologica per alzata di mano di Kate Mcintosh (ne parleremo), allo spaesamento proposto a spettatori, crocchi di amici, famiglie in Agoraphobia di Lotte Van Den Berg. Ma anziché vederci un teatro da videopoker, come ha scritto Massimo Marino su Controscene - Corriere di Bologna, si potrebbe provare uno sguardo a un tempo ingenuo e alla ricerca di segnali che portino fuori dal teatro. Nell'uno come nell'altro caso, siamo di fronte a una scena che rischia di annullare la sua alterità negli orizzonti della partecipazione, ma che pure potrebbe manifestare qualche crepa in grado di scuotere, di spostare gli orizzonti del quotidiano. La McIntosh, d'un tratto, prosegue il suo giochino di domande passando da «alzi la mano chi è ritardatario» ad «alzi la mano chi crede di essere vivo fra cinque anni». La Deflorian, se solo ci si fosse presi la briga di ascoltarla senza seguirla e di credere a una persona smarrita in una piazza (solo a questo, che è tantissimo), ci avrebbe portato a confonderci tra i passanti, costretti a un radicale ripensamento della nostra stessa ansia di guardare. Avrebbe parlato a una piccola folla non interessata, a tratti incuriosita, spesso infastidita. Ci avrebbe raffigurato, in piccolo, la fatica del teatro dei nostri anni, quindi della società.
Marino scrive che sarebbe necessario tornare a essere spettatori, di fronte a un teatro che morde, e che ci domanda di fare il nostro lavoro. Ci si chiede: cosa dovrebbe fare chi guarda, chi osserva, chi organizza e prova a discutere una scena relazionale che ricorre nei maggiori festival europei? Diviene inevitabile pensare ai ritrovati della sociologia dei nuovi media, non solo al concetto di prosumer, ormai antico, ma alla nozione di “post-spettatorialità” (Boccia Artieri). Come cambia lo sguardo, nello specifico il nostro? Cosa significa fare foto col cellulare nel buio delle sale, twittare recensioni da 140 caratteri cinque minuti dopo la fine degli spettacoli, condividere condividere condividere gli articoli su Facebook tutti in cerca di piccoli stuoli di mi piace? Sapendo che quasi nessuno supererà le prime tre righe del pezzo, ammesso che accada il miracolo del click sui nostri siti? E se tutti si sentono “post-spettatori” (dal momento che guardare leggere fruire senza intervenire è novecentesco), cosa dovrebbe fare il “post-spettatore” per eccellenza? Cosa dovrebbe fare il critico? Non ci sono risposte certe ma solo pratiche ricercate, e questo Santarcangelo · 13, almeno nel primo weekend, chiedeva di restare stupiti. Stupore da fare reagire con una sua necessaria perdita, da attivare però subito dopo l'opera, mai dentro.
La deriva che individua Marino è presente e va osservata da vicinissimo, ma non sembra che Santarcangelo · 13 l'abbia assecondata. Il festival, fino a questo momento, ha mostrato un'arte teatrale in difficoltà, fedele fotografia del teatro che oggi continua a porci domande. Se qualunque avanguardia ha sempre ambito a “rifare il mondo”, e se questo nel teatro è stato tradotto con una finzione in fuga dai patti rappresentativi del teatro stesso (gli appassionanti inizi dei teatri '90), o con una fuga tout court dagli edifici teatrali, per andare nel mondo (le avventure di certi teatri e artisti fra '60 '70 e '80, con forme diversissime), oggi si assiste a un teatro che si trova a rifare il mondo “in diretta”. La materia grezza della scena, già da tempo non più solo teatrale ma letteraria, cinematografica, musicale, poetica, corporea, legata a narrazioni popolari ecc. ecc., oggi è tangenziale alla vita di tutti i giorni. La materia grezza del teatro siamo noi e il nostro modo di stabilire relazioni con gli altri, in un approssimarsi asintotico e da ultima spiaggia fra chi l'arte la fa e chi la guarda. Vero è che molto più spesso vorremmo vedere una messa in discussione di tale scambio, un affondo nei lati oscuri della partecipazione e dell'interazione, o almeno una riflessione che guardi a quanto stiamo “perdendo” e non solo a quanto stiamo guadagnado. Ma se non accade, basta evocare i maestri passati, le vertigini misteriche perdute e il teatro che è stato? Basta nominare qualche grande regista europeo, il cui cachet per un solo spettacolo vale quasi l'intera programmazione di un festival? Sarà poi vero che alla quantità (di risorse) corrisponda la vivezza di una ricerca? E allora perché i baracconi nazionali (Napoli Teatro Festival) appaiono come cariatidi di un altra epoca, oltre che vergognoso spreco di denari pubblici? Diamo per assodato che minori risorse non producano minore qualità: noi scegliamo di guardare i luoghi in cui ci muoviamo più da vicino, provando a tenere presente il più generale contesto teatrale italiano, all'interno del momento storico di massima vicinanza al punto di rottura del sistema economico e culturale.
Se davvero allora vogliamo esser chiamati a fare gli spettatori, sembra fondamentale considerare la complessità delle proposte, senza piegarle a ciò che si voleva pensare prima. Perché Santarcangelo ha sì mostrato queste tensioni, ma ha anche ospitato il Premio Lo Straniero, che come pochi oggi è in grado di segnalare percorsi vivi, non arresi, non modaioli. Il suo direttore Fofi ha proposto alcuni incontri, su tutti quello di domenica mattina con Mario Dondero, il più grande fotogiornalista italiano. «Oggi si fotografa sempre di più per se stessi, mascherando la verità con la bellezza dell'immagine», diceva Dondero, in un incontro che da solo valeva il viaggio al festival. Tale conversazione era una delle tante, in un calendario fitto di incontri di approfondimento (Mårten Spångberg e la danza, altri ne verranno nel prossimo weekend), di incontri fra artisti e pubblico dopo gli spettacoli, di incontri inseriti in percorsi complessi (Strasse). Santarcangelo propone da solo più incontri di quanti ne esistano in tutta la stagione festivaliera italiana, da maggio a ottobre. Come non accorgesene? Cosa ha a che fare questo con i videopoker? E cosa ha a che fare con i videopoker il Premio Scenario, che si è concluso ieri ed è stato attraversato da centinaia di persone a ogni spettacolo? Perché Scenario abita a Santarcangelo, e non altrove? Per finire, questo festival tenta, almeno dal 2009 anche se con risultati non sempre continui, di mettere in connessione le arti in un disegno non casuale, in cerca di risonanze possibili fra ricerche. In Piazza Ganganelli lunedì sera è stato proiettato L'intervallo, film David di Donatello per il miglior regista esordiente (Leonardo Di Costanzo), mentre una programmazione musicale scorre in Piazza delle Monache, orizzonte concreto in cui gli artisti della ricerca teatrale musicale possono guardarsi da vicino. Non si tratta di difendere l'edizione 2013 di Santarcangelo, ma di considerarla come parte di un disegno complessivo di festival che prova a interrogarsi sulle sue stesse funzioni.
Nell'apparente regime festivaliero italiano in cui dominano le rassegne, con cartelloni più o meno interessanti che pur legittimamente si limitano a comporre programmazioni di opere finite, Santarcangelo propone una visione che alimenta una cultura teatrale. C'è una proposta chiara: mostrare una complicata armonia della dissonanza e della polifonia, con tanti percorsi quante sono le identità possibili dello spettatore oggi: spensierato a ballare musichette nella propria cameretta, ma quella cameretta è una piazza (Brian Lobel); morbosamente intento ad analizzare le proprie amicizie su Facebook (sempre Lobel); trasognato nel ricostruire le tracce di qualcosa che si è perso, fra autofiction e desiderio di verità (Art You Lost?); trasfigurato nella sua percezione consueta, a captare un concerto di passi creato da una maratona di ballo in piazza senza nessuna melodia musicale udibile (I topi lasciano la nave di Zapruder, film presentato anche al Festival Internazionale del Film di Roma); desideroso di approfondire, conoscere, andare oltre le superfici di quello che si vede e si ascolta, per farsi una idea magari fallace ma faticosa di quanto viene raccontato (i tanti incontri). È molteplice, forse esagerata nella quantità, nell'accumulo di diversità a volte inconciliabili e sovrapposte (anche banalmente a livello di cronoprogramma). Ma rispecchia la confusione di questi anni, lo spaesamento, la difficoltà ad avere punti di riferimento. Visioni forti o “fari”, discorsi che sappiano essere credibili sul lungo periodo, sono difficilissimi da trovare nella società. Come potrebbe un teatro produrli, senza apparire inesorabilmente lontano dal presente? Resta dunque da intendersi su che cosa sia necessario cercare in questi anni così poco rassicuranti. Un teatro antico fuori dal tempo, verticale, con echi di una tradizione perduta? O un teatro del presente, fatto di eccezioni che operano contro il tempo?