La sagra della primavera
Una coltre di fumo che si potrebbe tagliare col coltello. Al diradarsi, si scorge una fascia di luce rossa proiettata sulla parete sul fondo, mentre Cristina Rizzo entra come se stesse proseguendo qualcosa iniziato prima. Le cuffie che tutti indossiamo iniziano a suonare il celeberrimo fagotto acuto della Sagra: anzichè un commento, un'illustrazione o una dissonanza, fra visione del corpo e Stravinsky in cuffia si produce una particolarissima adesione, con l'effetto di un movimento che pare progettato per uno sguardo intimo, come se fossimo da soli con chi danza.
Il balletto che segnò nel profondo lo spirito della danza del '900, aprendo definitivamente la via a corpi sofferenti, pieni di gravità e ferite (come il secolo che di lì a pochi anni si sarebbe manifestato nelle sue tragedie, dopo quel debutto parigino nel 1913 per opera dei Ballets Russes di Djiaghilev, coreografia e danza di Nijinskj), quel balletto o la sua eco diventa per la Rizzo una continua fuga. Danzando senza in apparenza danzare, l'artista toscana tratteggia movimenti che sembrano solfeggi: traiettorie ininterrotte di passi sul bilico fra camminata e fraseggio coreografico, che sembrano disegnate solo nella parte alta del corpo, lasciando agli arti inferiori il compito di trasportare una danza leggerissima, al limite dell'intellegibilità, non fosse per una gamba slanciata, una caduta, un ondeggiare del tronco che costantemente si sposta e si riporta nel quotidiano. Ora a terra, la Rizzo sembra volersi annodare gli arti tra loro, in un complicato assemblaggio di forme precarie; poi si rialza, sonda i limiti dello spazio, si attesta contro una parete, esegue una corsa circolare sfiorando le prime file di spettatori. Si ferma con un braccio alzato, ci guarda e lo spazio vuoto si colora di rosso. Buio. Un taglio di luce illumina ora una sedia al centro, anch'essa più che mai vuota. La Rizzo rientra con un vestito da sera nero e parrucca bionda, prende in considerazione il nuovo spazio creato, beve un sorso da una lattina di Coca Cola, con un calcio spinge via la sedia, si scioglie i capelli e la fuga dell'inizio si fa possibile mimesi dei movimenti rigidi di una marcia militare. Infine avanza verso il pubblico e fa danzare i capelli, creando una soprendente coincidenza fra i saliscendi di Stravinsky e quelli del suo capo. Esce, continuando altrove.
Paura e delirio a Las Vegas
Generalmente ritenuto il manifesto della fine del sogno americano, il racconto Paura e disgusto a Las Vegas di H.D. Thompson è il soggetto del film del 1998 di Terry Gilliam, la cui trama coincide con il viaggio psicotropo di due trentenni invecchiati, all'insegna di uno stordimento come unica via di fuga alla cappa del presente. Così nella creazione della Rizzo ci si imbatte in “incidenti narrativi”, creati con raffinato calcolo per evocare zone di possibile senso. L'abbandono o l'assenza in quella sedia vuota, sembra riportarci ai tormenti relazionali di Pina Bausch; un fuori scena sonoro, quando nelle nostre cuffie alla Sagra si sovrappongono piccole ma decisive occasioni narrative (un riff quasi da b-movie nell'incipit, lo scroscio di una pioggia a metà, voci che sembrano comunicare tramite radiotrasmittenti nei dintorni del sorso di Coca Cola); ma anche quella fascia rossa iniziale, possibile aggancio al sacrificio dell'Eletta stravinskiana, o preludio a un secolo che si stava per insaguinare. Eppure, la sensazione è che a poco servirebbe rinchiudere il lavoro in una scatola narrativa. Di fronte a questa moltiplicazione di segni, accennati soffusamente, vien da pensare piuttosto all'avventuroso procedere della ricerca, quella della Rizzo e della danza contemporanea italiana. Viene da pensare alla rappresentazione e alla sua crisi, ai pochissimi che non fanno finta di nulla, rischiando la difficile carta di una messa in discussione di ogni consolazione rappresentativa ma preservando la comunicazione. Come non fare altrimenti, in tempi di Grandi Fratelli e di Teatri di Prosa novecenteschi? In questo riesce Cristina Rizzo, in un pezzo coreografico che è un piccolo gioiello.
Se nel 2002 la avevamo vista eseguire la stessa partitura ripetuta millimetricamente e ossessivamente con un altro danzatore (Tono di Kinkaleri), lasciandoci nel silenzio melodico assoluto mentre i performer ascoltavano musiche indossando cuffie, a distanza di 11 anni, quello che allora per noi era un concerto amplificato di passi e scivolamenti diviene La Sagra della Primavera. Ora, nel 2013, gradualmente scopriamo che anche la danzatrice indossa cuffie auricolari, ma è intenta ad ascoltare una playlist di musiche di tutt'altra provenienza, creando un'ulteriore sfida alle nostre percezioni, a quello che avevamo creduto di vedere e udire. Produce un vuoto pieno di senso, questa Sagra della primavera. Paura e delirio a Las Vegas vista a Santarcangelo · 13. Come raramente si è abituati a vedere, tale “mancanza” che la scena propone diventa sul serio un invito, una porta spalancata per chi guarda e ode: non per decrittare l'idea di un artista che rilegge la tradizione, ma nemmeno per districarsi tra i molti segni di una creazione da “post-production”, in cui nella sovrapposizione di segni stili tecniche riferimenti tipici del djeing capita di dover cercare col lumicino un valore di differenza, in modo da non essere fagocitati da uno spirito dei tempi che tutto livella. No, in questo lavoro il vuoto è dato paradossalmente dal “gioco”, nel suo doppio significato: quello spazio libero di movimento fra rappresentazione e il suo astratto contrario, facendo attenzione a tornare indietro quando si sosta eccessivamente su uno dei due poli; ma anche il gioco del nostro sguardo che danza insieme a chi sta sulla scena, sfidando le premesse di una tradizione per liberarsi da concetti, codici, costrizioni e narrazioni: danzare danzare danzare, prima di tutto.