Negli ultimi anni, non di rado, la comunità degli spettatori è stata spinta a interagire con la scena e a riflettere sul suo momentaneo statuto di microcosmo sociale. Nel caso di All Ears, spettacolo presentato a Santarcangelo ·13 dall’artista neozelandese Kate McIntosh accanto al progetto Worktable, sono una serie di quesiti a strutturare la fase iniziale: hai mai preso parte a una rissa? Se qualcuno lo proponesse abbandoneresti la sala? E la risposta, appunto, è partecipata; il pubblico alza le mani o sosta in un silenzio pensato. Ma comunque indotto. Come quando l’attrice, non prima di aver dato istruzioni, concede la pausa del gioco: manovriamo corde e scagliamo sedie contro il muro, lanciamo biglie sul palco. Così, nella continua garanzia di una visione frontale si raggiunge un caos scenico da ‘spettatori infantili’.
Il dispositivo non ha niente di oscuro e rende ancora visibile la propria natura drammatica (al limite della didascalia, ci riesce anche quando spiega dell’“elevata consapevolezza” di sé che – tra identità e identità – la platea umana dovrebbe avere). Eppure al di là di una puntuale vertigine sorta nel chiedersi se tra venti o trent’anni saremo ancora in vita e nel leggere il testo in italiano da cui emergono le costanti del nostro comportamento, non c’è affondo tematico e scenico che incida realmente sullo spettatore.
Allora, una volta fuori, sorge il dubbio che la pratica dell’inclusione non sia riuscita a farsi contraltare di quella che è, nel profondo, una richiesta etica e rischi di indurre tanto la scena quanto chi si ritrova a prenderne parte, a una dipendenza solo garbatamente ludica.