C’è un teatro che guarda dentro, indagando interiorità e sentimenti, scavando nei meandri dell’umano e della psiche. E c’è un teatro che guarda altrove, spostando la sua indagine negli orizzonti della società e della politica. C’è un teatro che si mette in discussione, destrutturando i suoi elementi tradizionali come la regia, la drammaturgia, la recitazione, e c’è un teatro che ottiene un effetto simile spostando il “serbatoio” della propria poetica nel mondo (la società, la politica) o addirittura portando il proprio raggio d’azione oltre i confini degli edifici teatrali. A ben vedere, la storia delle avanguardie del novecento, e degli anni recenti, potrebbe essere letta come un’alternanza di andate e ritorni dal teatro verso la società e viceversa. Da una parte c’è chi manifesta un’insoddisfazione per i limiti della scena in una dinamica che a conti fatti crede ancora nella relazione spettacolare. Si tratta di una linea che, un po’ sbrigativamente, potrebbe collegare le tensioni degli anni settanta con i “reality trend” degli ultimi anni: dai teatri che dopo il ‘68 vanno verso comunità cittadine, operaie, montane ai teatranti che “trasportano” le comunità dentro al teatro, si pensi per esempio ai Rimini Protokoll, alla forma del teatro documentario; sull’altro versante, ci sono artisti della scena che paiono non avere più l’orizzonte dell’evento come esito naturale della ricerca, esperienze che restano molto teatrali (nelle premesse e nei metodi) ma che non hanno quasi più nulla di spettacolare. Il teatro diventa allora preludio, preparazione per costruire rapporti umani differenti, per riflettere sul senso del vivere insieme, in una linea che nel novecento ha prodotto comunità teatrali senza spettacoli. Il percorso di Leonardo Delogu ne è chiaro esempio con le domande che porta con sé: riesce davvero, il teatro, a fare a meno della rappresentazione? Un teatro che cura la nascita di un giardino, che osserva il terzo paesaggio naturale e umano (Mutonia) è ancora teatro?
Caliban Cannibal, ph Andrea Macchia
Con tali questioni in mente, proviamo a immergerci nelle proposte del secondo weekend del festival, incontrando il percorso estetico di
Motus. Già nel nome, la compagnia riminese traccia una linea di fedeltà a un orizzonte di mutamenti: si parte all’inizio degli anni ‘90 analizzando l’assurdo quotidiano di fine secolo, con figure controllate, spiate, afasiche; ci si appropria, in seguito, di universi finzionali, facendo emergere personaggi e non solo presenze, mondi che si manifestano in stanze d’albergo cinematografiche e in periferie urbane letterarie. Lentamente ma inesorabilmente, la domanda che il gruppo rivolge al proprio linguaggio si approssima alla “realtà”, in una doppia articolazione: da un lato depotenziando la mediazione letteraria, teatrale e drammaturgica, che gradualmente diviene sempre più origine mitica o tragica in discorsi che fanno i conti con l’attualità (Antigone è l’eroina greca che “dice di no”, ma anche manifestante di piazza); dall’altra sgretolando dall’interno la finzione teatrale, portando sulla scena “solo” degli attori, che brechtianamente entrano ed escono da frammenti di personaggi, riflettono sulla recitazione, sulle idee di rivolta, di disobbedienza, di tempesta. Attori che durante la rappresentazione dialogano con altri attori, riflettono col pubblico, invitano chi guarda a compiere alcune azioni (scrivere messaggi, portare coperte, salire sul palco); attori che per arrivare allo spettacolo cercano persone che abbiano avuto esperienze di sommosse e rivoluzioni, incontrano migranti a Lampedusa e studenti a Tunisi, organizzano workshop per radunare piccole comunità di artisti, per condividere domande e affinità.
Santarcangelo • 14 dà un’articolata testimonianza del percorso della compagnia, presentando le loro più recenti opere affiancate da altri appuntamenti. Si può cominciare entrando nelle sale della Biblioteca Baldini, un altrove che intreccia il piano poetico con una riflessione più politica, offrendo echi del processo creativo e spettacolare: brevi video di inchiesta, reperti che raccontano gli ultimi anni di lavoro, fra Roma, Venezia, Montréal, Bruxelles. All'Hangar viene presentato
Nella Tempesta, spettacolo che guarda a migrazioni e rivoluzioni, a tempeste letterarie (a partire da Shakespeare e non solo), metereologiche e dell’attualità nordafricana, forma probabilmente fra le più compiute della traiettoria recente del gruppo riminese, esempio calzante del desiderio di rompere i confini della scena restando nel teatro. Infine, in
Caliban Cannibal osserviamo due figure che tentano di comunicare pur non parlando la stessa lingua. Una nuova relazione anche fra spettatori e attori, «dopo una certa idea del rapporto tra scena e realtà che Motus abbandona», come scrivono gli artisti nella presentazione del progetto.
Quello di Motus è dunque un teatro che si sfrangia, che perde alcune delle sue specificità (scenografiche, drammaturgiche e in parte anche registiche) per provare a recuperare incisività nella società, andando in cerca di persone accomunate da inquietudini di ordine poco o per nulla teatrale. Un procedere che potrebbe rinnovare il teatro, le sue forme e i suoi discorsi, se l’inquietudine a uscire fuori riuscisse a produrre anche spinte contrarie, a tornare dentro il teatro per occuparsi della vertigine delle forme. Ma si possono conciliare queste due istanze? Anche questa domanda rimane aperta, la rivolgiamo a lettori, artisti e spettatori.