Il teatro è organismo complesso, lo immaginiamo in salute quando i suoi discorsi sono contemporanei ai problemi della società. Oggi il teatro è immerso nella fatica: riconosce la società e le sue crisi, ma non è riconosciuto. Il mondo fuori pensa ad altro, si diverte chiacchiera balla oppure riflette e dibatte. Il teatro non c’è quasi mai, se non nella formaldeide del tradizionalismo o nelle “classi” di recitazione televisive. Una discussione sui festival che non tenga conto di tali premesse risulterebbe inefficace, o produrrebbe foto di gruppo utili solo per autolegittimarsi.
In questi giorni
La cronaca drammatica di questi giorni ci spinge a trovare luoghi dove riconoscersi, dove parlare usando l’alfabeto plurale della convivenza. Il Festival di Santarcangelo è fatto da dinamiche di rappresentazione, produzione e confronto, ma ha un’attitudine storica, tenacemente esercitata, a rimanere in relazione con la realtà. La convivenza di operatori, artisti, pubblico in un unico luogo per più giorni fa sì che si costruisca ogni anno da quarantaquattro anni un luogo in cui la percezione e lo sforzo di capire sono sollecitati dalla dimensione collettiva, vorremmo dire dalla comunità dei teatranti. Ogni anno si presentano connessioni tra il presente, e la sua cronaca, e gli spettacoli. È stato abbattuto il volo di linea MH17 di Malaysia Airlines a Grabovo al confine tra Ucraina e Russia, siamo al dodicesimo giorno di raid a Gaza, continua la tragedia dei migranti nel canale di Sicilia: si contano i morti.
Una delle possibilità rimaste – tra quelle che si interrogano sul “che fare?” – riguarda il ruolo degli operatori culturali di esercitare economie produttive in cerca di guizzi, che rifiutino i meccanismi della serialità. War now! è il prezioso risultato di un lavoro produttivo che ha messo insieme diversi enti teatrali per poter veder agita la regia collettiva del lettone Valters Silis e di Teatro Sotterraneo. War now! è costruito per mostrare pubblico e autori oscillanti tra adesioni estetiche a una realtà che è la nostra e il rifiuto di ciò che consideriamo inaccettabile. Un posizionamento forte e internazionalista consapevole di un presente così doloroso.
Fare un festival
Noi crediamo che Santarcangelo 12 13 14 abbia proposto un modello, memore delle indicazioni visionarie del trienno degli artisti e capace di dispiegarsi in un nuovo orizzonte critico. Fare un festival significa scompaginare l’idea corrente di teatro, inventando meccanismi che lo rendano permeabile a ciò che teatro non è, innescando processi che portino spettatori appassionati, professionisti e “potenziali” vicini all’opera d’arte; significa prendersi la responsabilità della “riproduzione” del teatro, e non solo della sua rappresentazione, favorendo collaborazioni fra artisti e invitandoli a occuparsi di quello che non conoscono; infine formulare un discorso sul teatro e sulle sue possibilità e lacune: dopo un primo anno fondativo, si sono provocate accensioni e discussioni per essere in grado, quest’anno, di disseminare proposizioni, avendo compreso cosa può fare e non può fare il teatro.
In fuga dall’omologazione
La danza, decisiva nella riuscita di Santarcangelo 14, ha dato una sua risposta non solo nei lavori delle compagnie più interessanti della scena contemporanea italiana e internazionale, ma anche con un’invenzione: Piattaforma della Danza Balinese. Uno spazio spoglio, in un angolo un set a sfondo esotico per le fotografie degli artisti del festival, un impianto audio, cuscini in semicerchio, al centro avvengono senza soluzione di continuità dibattiti, danze, laboratori, la soglia non è un limite, si può entrare e uscire a piacimento. In un’atmosfera giocosa ma concentrata i curatori del progetto (Silvia Bottiroli, Michele Di Stefano, Fabrizio Favale e Cristina Rizzo) si aggirano come dei sacerdoti punk che celebrano un rito di forma artistica e di contenuto politico. Le domande di progetto sanno spiazzare: «Inventarsi un party», una «programmazione dentro la programmazione di un festival», una «Repubblica indonesiana della danza implica ri-definire le modalità e i luoghi del performare? E perché farlo praticamente “gratis” e dunque fuori dall’economia?» «Siete d’accordo sul fatto che non bisognerebbe spiegarsi mai?» Sono questioni di rara efficacia per disincagliarsi dall’omologazione del linguaggio.
Santarcangelo del futuro
Viene dunque da pensare che il teatro, oggi, abbia un disperato bisogno di questa idea di festival: se si cerca un teatro in grado di incidere nella società, si ha bisogno di strutture che a loro volta possano incidere nel teatro, e che si dotino degli strumenti giusti per “ascoltare”. Il festival sta nel mezzo fra comunità cittadine e raggruppamenti artistici. È in salute quando costringe il teatro a guardare fuori da sé, ma anche quando invita la città a entrare dentro al teatro. Se osserviamo questi tre anni pensandoli come reazione alla mancanza di autorevolezza culturale delle scene, ci accorgiamo della presenza di inneschi che produrranno effetti sul lungo periodo. In Italia non accade quasi mai, e sarebbe importante che chi li ha progettati potesse proseguire in futuro a segnare questa incerta strada. Sarebbe bello vedere cosa accade “dopo”: ora che i cittadini sono vicini all’opera d’arte, ora che artisti e addetti ai lavori vedono in Santarcangelo uno spaesamento necessario, sembrano esserci tutte le condizioni per saltare il fosso e per puntare a una ripresa di parola culturale del teatro. Il teatro potrebbe davvero farsi carico di propagare contraddizioni fra addetti ai lavori, cittadini, artisti. Un piccolo paese, specchio delle latitudini italiane nel contesto europeo, ma anche faro nell’Europa delle perfoming arts, andrebbe ricostruendo la consapevolezza diffusa che pensare diversamente è vitale.