CONVERSAZIONI > Bottiroli e Sacchettini: Abitare il paesaggio con gli occhi del teatro
Comincia oggi la quarantaquattresima edizione del Festival, che si propone anche quest’anno come laboratorio aperto. Un programma di opere, incontri e workshop che offre spunti di riflessione per ripensare le regole del vivere insieme, innescando nuove possibili relazioni.
Il programma di quest’anno dà la sensazione che ci sia la necessità di “guardare fuori”, oltre le arti teatrali propriamente dette, nel tentativo di costruire un rapporto specifico con la città. È un segnale del fatto che in questo momento il teatro non basta più a se stesso?
Silvia Bottiroli: Nel pensare l’arte in relazione alla città e alla società occorre mantenere un approccio critico. Il fatto che il festival vada in questa direzione non dipende da una decisione a priori: una tendenza che si è delineata a poco a poco, mentre incontravamo i progetti. All’interno di questi si agitano tensioni diverse in base alla funzione che si vuole assegnare ai luoghi che li riguardano: in alcuni casi si cerca di intensificare caratteristiche che lo spazio già possiede o dovrebbe possedere; in altri l’intento è quello di una trasfigurazione pressoché completa. In ogni caso, la domanda di fondo verte sul rapporto fra temporalità e stabilità, fra la collettività che abita Santarcangelo e quella effimera che si crea durante il festival: per trovare un equilibrio, seppur precario, fra due dimensioni estremamente diverse e avviare una riflessione sulle responsabilità che ciascuna comporta.
Rodolfo Sacchettini: Il tentativo di costruire un rapporto significativo con la città fa parte della storia stessa del festival, così come succede da anni, e in molti altri luoghi, che una rassegna teatrale non si occupi solo di teatro. Da sempre, Santarcangelo vuole essere un momento di trasformazione della realtà circostante, una sorta di piccolo mondo in cui si prova a modificare le regole del vivere insieme. E, mai come in questo momento storico, l’intreccio con la dimensione cittadina rappresenta uno degli anelli vitali di qualsiasi progetto o festival. Il teatro, che è l’arte della relazione per eccellenza, ha sicuramente molto da dire e molto da imparare su questo tema .
Non si corre però il rischio di negare la specificità del teatro?
S.B.: È vero che tanti percorsi presenti in questo Festival tendono ad allontanarsi dalla dimensione teatrale, ma è altrettanto vero che altri vi rientrano pienamente. È il caso, ad esempio, dei progetti di danza che uniscono un piano di forte riflessione politico-concettuale a una componente coreografica di grande specificità scenica. Non ci interessa di per sé “spingere” il festival completamente fuori dalla rappresentazione: è fondamentale poter anche stare di fronte a un lavoro. Per questa ragione, nel programma di un festival, la presenza di radicalità sceniche diventa un elemento imprescindibile. Credo che una delle domande fondamentali da porsi sia: quanto alza la posta in gioco quel determinato spettacolo? E in che direzione? Soprattutto per i progetti “partecipativi”, è importante che alzino l’asticella sia rispetto alla pratica artistica e di relazione con la città e i cittadini, sia rispetto alla specificità formale e scenica.
R.S.: È un momento in cui è necessario mescolare le carte il più possibile, nella speranza che l’ibridazione dei linguaggi faccia nascere qualcosa di nuovo sia sulla scena che nello spettatore. La capacità di prendersi dei rischi è parte integrante dell’identità del Festival: il suo obiettivo è quello di fungere da catalizzatore, di innescare scintille. Se poi i percorsi che ne derivano fuoriescono dal teatro propriamente detto, non dovrebbe essere un problema accoglierli. La sensazione che manchino spettacoli con una storia e una memoria forti, cui assistere dentro la “scatola nera” del teatro, rimane, ma non può degenerare in rassegnazione. Il nostro compito, anche e soprattutto in tempi di crisi, dev’essere quello di creare le condizioni affinché esperienze originali possano nascere, crescere e rafforzarsi.
C'è una componente di impegno civile, “politica” all’interno delle proposte del festival. Come siete arrivati a definirla?
S.B.: Anche in questo caso si tratta di un risultato raggiunto a posteriori e non di una visione programmatica che abbiamo voluto “applicare” al festival. I tre spettacoli più strettamente “politici” (La imaginación del futuro de La Re-sentida, War Now! di Teatro Sotterraneo/Silis, Caliban Cannibal di Motus) nascono e si sviluppano in maniere molto diverse fra loro, pur condividendo una dimensione tematica che parte dal passato per arrivare all’oggi. War now! è il frutto di una collaborazione concepita proprio qui a Santarcangelo: abbiamo intuito la possibilità di integrare in modo proficuo i percorsi dei due artisti, fornendo come spunto operativo il centenario della Prima Guerra Mondiale. La imaginación del futuro rappresenta invece il tentativo di creare un cortocircuito geografico-politico: inserire una riflessione sulla situazione cilena nel contesto culturale italiano permette di far emergere allo stesso tempo alterità e consonanze preziose. Caliban Cannibal, infine, sposta il discorso sul rapporto fra teatro e realtà: la scena diventa il luogo per articolare un pensiero e una parola nuovi in un “dopo”. C’è dunque una concezione poco assertiva, per nulla ideologica, del “politico” come ricerca disordinata e malinconica di qualcosa che è possibile ma anche estremamente fragile.
R.S.: Al di là dell’esito spettacolare di diversi percorsi che il festival propone, il dato importante è che ciascuno di essi pone questioni spinose, relative all’identità e alla memoria, che non sono ancora pienamente risolte. Sia dal punto di vista del contenuto che da quello del linguaggio scelto per esprimerlo, questi spettacoli offrono elementi di conflittualità fondamentali che possono far discutere, finanche arrabbiare, in certi casi.
Quest’anno si conclude il progetto triennale di direzione da voi iniziato nel 2011. Quali traiettorie sperate possano rappresentare un lascito per gli anni a venire?
S.B.: Spero innanzitutto che la città abbia compreso ancora di più le caratteristiche e le potenzialità del festival. Che gli amministratori si rendano conto della necessità di costruire una visione di ampio respiro rispetto alle politiche culturali, al ruolo della collettività cittadina, allo stesso rapporto con il festival. In generale, la direzione di Santarcangelo ha rappresentato per me una “palestra di governo”, nel senso di un allenamento costante della capacità politica di relazionarsi con gli altri. È molto facile “spegnere incendi” o disinnescare processi quando non si riesce a governarli. Mi auguro quindi che il gruppo tecnico-organizzativo che ci ha accompagnati in questi anni abbia preso coscienza del fatto che certe cose accadono solo nella misura in cui si è stati in grado di creare presupposti e condizioni di partenza, e che lavorare con artisti in creazione significa che quelle condizioni non sono mai date una volta per tutte. Spero poi che il festival abbia ridisegnato il rapporto con gli artisti, nella direzione di un’apertura e di un ascolto reciproci. Non a caso, sono nate collaborazioni numerose e importanti: abbiamo insistito affinché Santarcangelo fosse un’occasione di riflessione e di incontro con il lavoro altrui, oltre che di presentazione del proprio.
R.S.: Uno dei miei timori è quello di una possibile “normalizzazione”. Santarcangelo è sorretto da dinamiche gestionali e organizzative assolutamente non convenzionali, senza le quali non sarebbe più lo stesso. La squadra di giovani che, ad esempio, si crea in maniera quasi spontanea nei giorni a ridosso del festival, trasmette un senso di vivacità ed energia, elementi fondamentali per un Paese in cui tende a dominare un pensiero di stampo senile. In secondo luogo il tempo: lavorare con una prospettiva di tre anni ci ha permesso di pensare al futuro pur agendo nel presente. Ci vuole tempo per seminare e raccogliere tutto. Credo che proprio questo fattore, unito a una elasticità strutturale che consente di assorbire le crisi economiche, possa rendere un festival una realtà tra le più vive nel panorama attuale, in un momento storico in cui il sistema teatrale – è bene ricordarlo – rischia seriamente il crollo.