Guintche è il nome di un volatile, ma significa anche prostituta. È una parola creola che nell’uso quotidiano si fa sfuggente e scivolosa e indica una continua mobilità, come un attraversamento lieve che non nutre nostalgia per il passato o attese per il futuro e per questo esplode nel presente. Così è la danza di Marlene Monteiro Freitas, danzatrice e coreografia originaria di Capo Verde: un continuo slittamento della figura e dei gesti, flirtando con stereotipi e aspettative ma eludendoli. Guintche è un personaggio multifacce: fianchi che ondeggiano assecondando un ritmo di tamburi frenetico, faccia che si trasforma dilatandosi, gonfiandosi, masticando, braccia aperte in segno di sfida, piedi ancorati a un campo magnetico. Un corpo-animale attraversato da emozioni contradditorie transitorie ad alta intensità. Abbiamo incontrato la coreografa e danzatrice che si è formata a Bruxelles e vive e lavora a Lisbona.
Da dove nasce la tua danza?
All'inizio c'è sempre un'idea. In questo caso sono partita da un momento specifico a cui ho assistito durante un concerto: non sapendo come catturarlo, non avendo una macchina fotografica, ho fatto un disegno che poi ho provato a tradurre in danza. Da questo primo nocciolo sono partita collezionando una serie di oggetti e impressioni per materializzare il corpo dell'idea, uno studio del movimento che si è gradualmente nutrito di altri riferimenti. Per esempio ho guardato da molto vicino al lavoro di Franz Messerschmidt, artista che ha prodotto una serie di sculture legate agli studi psicanalistici dell'isteria. Generalmente, nei miei lavori, un'idea diventa il fondamento dello spettacolo, ma anche il suo elemento destrutturante.
Si nota effettivamente un continuo passaggio di stato, che rende quasi impossibile fissare un'immagine unica della figura che presenti...
Mi piace lavorare sull’idea di metamorfosi, una trasformazione che mi permette di evocare creature ibride in costante mutamento. Le figure della mia danza nascono da idee spesso contraddittorie che collidono e permettono a qualcos’altro di manifestarsi. In Guintche pongo al centro l'imponderabilità dell'identità: taluni connotati restano riconoscibili ma si trovano collocati all'interno di una pluralità, di un'ibridazione.
Come lavori per ottenere questo effetto?
Non cerco la precisione dell’adesione mimetica, che soffocherebbe l’apertura della situazione. La mia danza non è mai un mascherarsi quanto piuttosto un disvelarsi, tanto che i movimenti emergono più come sintomi che come scrittura nitida di una frase di movimento. Alcuni gesti non hanno un posizionamento logico coerente e questo contribuisce a smagliare ancora di più i confini della situazione.
La scelta dei costumi ha una valenza drammaturgica decisiva...
Solitamente sono io stessa a curare e realizzare i costumi dei lavori. All'inizio del processo i costumi, la musica e l'immaginazione dello spazio prendono forma progressivamente, evolvendosi insieme all'idea. In Guintche il costume rappresenta un assemblaggio eccessivo, una contraddizione di materiali e immaginari, una convivenza azzardata.
Questa stessa idea trasformazione del corpo, e della danza, sembra tradursi in una "mobilità dello sguardo" per lo spettatore.
Quando guardiamo qualcosa a teatro lasciamo che le nostre aspettative o le idee preconfezionate su ciò che incontreremo guidino la comprensione del lavoro. Per me si tratta piuttosto di abbracciare tutte le possibilità e procedere insieme allo spettacolo senza anticiparlo, senza cercare di essere più veloci ma muovendosi, danzando insieme alla scena. Per questo agisco sul crinale tra la riconoscibilità e lo spaesamento, per fare in modo che l’incontro che avviene tra il pubblico e la danza sia un dialogo reale, capace di evadere le interpretazioni predeterminate. Trovo un’enorme libertà nel creare uno spazio finzionale, di immaginazione e nel condividerlo con il pubblico per abbracciare quella vertigine che permette di perdersi per trovare altro, qualcosa di inaspettato.