SharedSpace è un progetto artistico internazionale di ricerca scenografica sui temi della musica, del tempo e della politica, teso ad aprire uno spazio di esplorazione, ridefinizione e creazione di ambienti performativi che si sviluppa nel corso di tre anni coinvolgendo dodici istituzioni europee. Guy Gutman, artista, dirige la School of Visual Theatre di Gerusalemme e a Santarcangelo cura, con Silvia Bottiroli, il progetto Nomadic School: the Host and the Cloud.
Che cos’è la Nomadic School?
È un vero e proprio processo di ricerca che riflette sulla relazione tra performance e apprendimento, portato avanti nell’ambito del progetto SharedSpace. Abbiamo pensato questa scuola come un organismo che entra a far parte di un meccanismo più complesso: il festival.
Quali sono le specificità del Festival di Santarcangelo rispetto ad altri?
Di base è un festival in senso classico: ne varchiamo le porte per vedere degli spettacoli, ma in un contesto che rende evidente come gli artisti e le loro opere siano qui i generatori originari di una dimensione sociale o collettiva. Inoltre, tutti si pongono in una posizione estremamente critica, nel senso che non c’è una celebrazione aprioristica degli artisti o della cultura in generale ma ci si domanda in continuazione se non sia possibile far di meglio. C’è dunque una consapevolezza profonda dei propri limiti, che ha a che fare con un forte senso della comunità.
Come è avvenuta la scelta di The Host and the Cloud in quanto punto di partenza del progetto?
È un suggerimento diretto di Silvia e rispecchia molto la visione dell’arte che hanno lei, Daniel Blanga Gubbay e Livia Piazza, la quale consiste nell’offrire le condizioni affinché si crei uno spazio di discussione e confronto. Il titolo stesso è stato come un detonatore per noi: abbiamo iniziato a porci domande di senso, ipotizzando di volta in volta chi potesse essere l’ospite e chi la nuvola. Tutto ciò ci ha fornito un vasto materiale di discussione, in particolare riguardo allo stare insieme e alle responsabilità individuali che ne derivano.
Qual è il rapporto fra pedagogia e performance?
Faccio una premessa: a grandi linee esistono due opposte concezioni della pedagogia. In un caso, si tratta di lasciare lo studente in una situazione di autonomia, cosicché impari da solo. Nell’altro, si tratta di imporre una certa ideologia alla quale più o meno tutti devono conformarsi. Ecco, unire performance e pedagogia significa non tanto collocarsi in mezzo a questi due estremi, quanto spostare le domande di cui queste due concezioni pretendono di essere le risposte. Il punto è riuscire a creare uno spazio in cui emergano contraddizioni e paradossi, senza che si instauri una dinamica classica di docente-discente. C’è una domanda calzante che spesso mi pongo: cosa ci accade quando leggiamo un testo filosofico? Possiamo dire di aver imparato Platone dopo averlo letto o accade qualcos’altro? Quando leggiamo la filosofia ne siamo assorbiti, ci perdiamo, quindi forse il termine “sperimentare” è più appropriato di “imparare”. Ecco, questo è la Nomadic school: porre le basi affinché sia possibile una trasformazione.
Una frase del vostro progetto che ci ha molto colpito è: «Indagare il teatro come ultimo luogo umano».
Possiamo dire che la performance e il teatro sono l’ultimo luogo per il presente, prendendo spunto dall’opera di Marina Abramovich The Artist is Present. Penso che il teatro sia uno spazio in cui la nostra umanità è in discussione o in negoziazione, o in realizzazione attraverso il presente. Mi piace molto in questo caso la parola “ultimo” perché comunica pienamente un senso di urgenza, quello stato di emergenza con cui entriamo in sala. Ho imparato che il teatro è un luogo che le persone varcano con necessità specifiche, siano essi attori o spettatori. Se non avessimo queste urgenze non ci sarebbe alcun senso nel dispositivo teatrale, sarebbe solo un’esperienza imbarazzante. A volte mi è capitato di annoiarmi in sala e ogni volta mi sono chiesto: cosa succederebbe se adesso urlassi qualcosa, ad esempio: «Stop!» Non sarebbe fantastico? Tutto si fermerebbe. Tempo fa lavoravamo in un festival per bambini che fu cancellato perché nei giorni precedenti erano esplose alcune bombe. Decidemmo comunque di farlo per conto nostro. Durante uno spettacolo, molto semplice, con attori travestiti da animali, all’improvviso entrò una donna che urlò: «Sta per esplodere! Tutti fuori!» Andammo nel panico, comprese le finte zebre, le giraffe e i coccodrilli, che cominciarono a saltare e scappare. Fortunatamente era un errore e dopo un momento lo spettacolo riprese e tutti ritornarono a credere a quello che stavano guardando o interpretando.
a cura di Francesco Brusa e Margherita Gallo