A Santarcangelo per rappresentare la prima europea de La imaginación del futuro, la giovane compagnia cilena La Re-sentida ha mostrato di essere un’alterità rispetto al teatro, accettando il rischio di intrecciare sul palcoscenico la grande Storia con le piccole storie personali. Abbiamo dialogato con il regista e drammaturgo Marco Layera durante un lungo incontro pubblico, che trascriviamo qui di seguito.
Ne La imaginación del futuro affrontate una piccola storia intrecciata con la Storia del Cile. Qual è stato il vostro metodo di lavoro?
Nella fase preparatoria di tutti i nostri lavori teatrali sono io che, sulla base di un’intuizione, raccolgo tanto materiale di ricerca che poi consegno alla compagnia. Non si tratta necessariamente di drammaturgie, ma anche di immagini, disegni e idee. Di solito è un insieme molto disordinato e caotico. Partendo da questo materiale inizia il lavoro collettivo, con gli attori che avanzano proposte drammaturgiche e fanno molta improvvisazione. Tale processo fa incrociare i materiali di ricerca con la recitazione, permettendomi di scrivere il testo. Lo spettacolo arriva di conseguenza in maniera semplice: otto teste pensano meglio di una, e i miei attori mi aprono la mente verso luoghi a cui io non sarei arrivato. La nostra è una continua relazione dialettica di costruzione e decostruzione.
Riguardo al tema di cui ci siamo occupati ne La imaginación del futuro, esso fa parte di un processo che va avanti dalla nostra prima opera ed è proseguito finora. Nel 2008, con Simulacro, abbiamo parlato dell’identità del Cile nell’anno in cui il paese ha compiuto 200 anni di indipendenza. Si trattava di un lavoro molto radicale e punk, dal quale avevamo grandi pretese a livello di contenuti. Andò piuttosto bene e riuscimmo a girare anche in Europa, nonostante fossimo una compagnia giovane. Ci siamo allora chiesti che cosa potevamo ottenere da questo successo, trovandoci a vivere una situazione che sentivamo contraddittoria, poiché trattavamo temi che per noi erano come domande senza risposta. Ci siamo dunque resi conto che la contraddizione era il motore del nostro lavoro. Da tale stimolo è nata la seconda opera, Tratando de hacer una obra que cambie el mundo, che partiva da Camus e conteneva una pièce di Peter Weiss, La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat. Weiss è stato lo spunto iniziale per realizzare una nostra Persecuzione e assassinio di Salvador Allende, che doveva essere inzialmente un riadattamento di Weiss ma ha preso tutt’altra direzione, fino da divenire stimolo per il terzo lavoro, La imaginación del futuro. Per questo spettacolo siamo partiti dalla figura di Allende, che genera in me e nei ragazzi della compagnia discussioni contradditorie - a differenza di Pinochet, che non ne genera nessuna. Allende è un peso storico che ci portiamo sulle spalle da quando siamo bambini, era per noi necessario nuove domande, che si sono rivelate scomode e dolorose. In generale, credo che ciò che agiti continuamente la nostra ricerca sia che amiamo e odiamo il nostro paese: se lo odiassimo ce ne andremmo, se lo amassimo non faremmo teatro.
Ph Ilaria Scarpa
Il modo libero e quasi irrispettoso col quale discutete di una figura mitica come quella di Allende indubbiamente non lascia indifferenti. Quali sono state, invece, le reazioni degli spettatori in Cile?
Ci è stato detto di essere stati i primi artisti a trattare la figura di Allende attraverso il giudizio, senza omaggiarla. Questo ha causato rabbia nel pubblico perché Allende è un mito intoccabile. La nostra è in effetti un’opera radicale: o piace molto, o viene odiata. Ci sono persone che si arrabbiano e che a un certo punto se ne vanno, dandoci addirittura dei fascisti. Ma il nostro desiderio è proprio quello di provocare, attraverso la finzione. La imaginación del futuro non parla di Allende, ma di come noi lo vediamo, del modo in cui l'epoca che abbiamo vissuto ha influenzato le nostre vite, anche indirettamente. Si tratta quindi di un lavoro che parla della nostra generazione di trentenni e, di conseguenza, le reazioni del pubblico sono diverse: i nostri coetanei ridono molto e si divertono, anche grazie alla distanza dai fatti narrati; la nostra generazione non ha idoli e non crede nelle icone. Per la generazione dei nostri genitori, invece, Allende è assolutamente un’immagine intoccabile, dunque il nostro lavoro infastidisce. In generale lo spettacolo divide le generazioni e crea discussioni, anche se, fortunatamente, molte persone di mezza età sono disposte a dialogare pur manifestando un dissenso. Quello che che succede a livello generazionale accade anche a livello politico, con i più conservatori che escono indignati soprattutto per come raccontiamo la storia del bambino. Però io credo che niente di ciò che facciamo provochi davvero troppo, siamo talmente abituati alle provocazioni che niente ci sconvolge più.
Il vostro linguaggio di scena è molto vicino a quello mediatico dei grandi racconti del cinema e del telegiornale. Come arrivate ad attuare il racconto della vostra storia? Come vi ponete insieme davanti al lavoro personale dell’attore?
I processi che innestiamo per la creazione sono molto liberi e senza pregiudizi. Non essendo legati a uno studio o una forma, per noi anche il peggiore stile può essere interessante nel processo di lavoro. Il nostro processo è caotico ma disciplinato: i ragazzi sono sempre liberi di fare i pagliacci e di compiere qualsiasi ricerca e indagine, ma se chiedo a uno di loro di saltare dalla finestra del secondo piano, lui lo farà. Siamo un ottimo team. Molte volte questo modo di procedere ci porta dalla parte opposta a quella che intendevamo raggiungere all’inizio, e l’esito risulta migliore. Siamo completamente liberi: l’unica cosa che non possiamo fare è saltare una prova. Lavoriamo quasi tutti i giorni per tante ore e facciamo una grande ricerca sul linguaggio, che la critica trova molto originale, ma noi ancora non sappiamo esattamente come definirlo. Costruiamo i personaggi e le scene, avvicinando il ruolo del personaggio alla storia. Non ci piace pensare all’identità del personaggio, ma preferiamo lavorare sulla personalità artistica dell’attore, partendo da lì per la costruzione dello spettacolo. Nella nostra opera precedente gli attori si chiamavano con i loro nomi propri, mentre in questa nessun personaggio ha un nome, ma si indica solo la carica del ministro. Crediamo di più nell’incarnazione del momento che nei personaggi; crediamo nella “pallottola impazzita”, sulla quale è difficile fare un lavoro psicologico, che nemmeno ci interessa. Il nostro lavoro d’attore è una prova continua delle scene e delle situazioni, con molti errori dai quali improvvisamente troviamo qualcosa che funziona, oppure cose che avvengono subito bene ma è difficile rifarle. Il lavoro di improvvisazione è da ripetere e ricercare. Alla fine del lavoro su un’opera abbiamo moltissimo materiale: ne avremmo per fare uno spettacolo di tre ore, e infatti molto ce ne avanza per l’opera successiva. Ma non ci piace mai ripetere lo stesso modello. C’è sempre una base comune delirante e con un humour acido, ma i nostri lavori sono molto diversi tra loro. Anche nel prossimo sarà così: per cambiare direzione indagheremo il vuoto partendo dal nulla, senza avere testo né materiale.
ph Ilaria Scarpa
L’intento finale di questo vostro interessante rapporto tra personaggio e attore è raggiungere una verità della scena, anche per gli spettatori?
L’idea di personaggio è un processo che accade nella testa dello spettatore, il quale ha necessità di individuare il personaggio. Per noi invece questo non è importante e non ce ne preoccupiamo. Non facciamo un lavoro sui personaggi descrivendoli, ma entriamo in scena e risolviamo una situazione che per noi è urgente.
Questa idea del personaggio e della ricerca di verità è qualcosa che sta accadendo nel teatro contemporaneo. Avete alcuni riferimenti teatrali del presente e del passato, europei o cileni, che considerate interessanti per il vostro lavoro in questo momento?
Personalmente ho molti riferimenti che mi aiutano ad alimentare nuove visioni. Nel teatro contemporaneo italiano, ad esempio, mi sembrano molto interessanti Romeo Castellucci, Emma Dante e i Motus, nonostante non rappresentino ciò che noi faremmo sul palcoscenico. In Cile, il regista e drammaturgo Guillermo Calderón è punto di riferimento per tutta la compagnia. Inoltre seguo molto la danza di Alain Platel, Pina Bausch e Constanza Macras. E nel teatro europeo mi piace un po’ di tutto: da qualsiasi cosa si può sempre trovare una buona idea, anche se ormai tutto è già stato fatto e non c’è niente di completamente nuovo.
Cosa significa fare teatro oggi in Cile per una compagnia trentenne? Come si inizia, come ci si forma, come si può arrivare a farlo?
In Cile c’è una sola università di teatro e pochissime compagnie teatrali stabili. Gli attori e le compagnie indipendenti sono invece numerosi, ma sono pochissimi gli spazi in cui poter lavorare. Tutte le compagnie che anni fa hanno iniziato un percorso hanno dovuto investire i propri soldi per poter cominciare, e pochissime di queste, solo di recente, hanno ottenuto la possibilità di avere uno spazio di lavoro. La strada dell’attore è molto precaria, così come la piattaforma culturale di sostegno per il teatro. Il Cile destina molto poco alla cultura, poiché è un paese povero, lontano anni luce dall’Europa di Francia e Germania dove gli attori hanno situazioni più stabili. Le compagnie giovani sono molte, ma non ci sono sale a disposizioni per mostrare i propri lavori, ed è quasi impossibile accedere ad aiuti statali. Io, che per mantenermi faccio il professore, vedo i miei alunni che quando si avvicinano al teatro fanno ciò che ho fatto anch’io ai miei tempi; lavorano come camerieri di giorno e provano durante la notte, e passano degli anni prima che riescano a raggiungere un minimo risultato. Di solito ci si stanca prima e si passa a fare altro nella vita. In questo senso noi siamo stati fortunati, perché abbiamo il privilegio di poter fare ancora teatro e di poterci vivere un minimo, ma rappresentiamo appena il 2% delle compagnie cilene. E anche per noi è difficile avere accesso ai fondi e alle sale. Noi stessi proviamo spesso a casa mia dalla mattina alla sera. Il lato positivo di questa situazione, che fuori dal Cile le persone non conoscono, è però che chi vuole davvero fare teatro cerca di resistere il più possibile, mantenendosi, e questo rappresenta una sorta di filtro.
Non guadagniamo nulla dalle stagioni cilene, e la nostra unica fonte di sostentamento viene dalle repliche in Europa. Siamo 14 persone per uno spettacolo dalla struttura tecnica impegnativa, ma in Cile la nostra politica è che più gente possibile possa vedere i nostri spettacoli, e per questo manteniamo prezzi di ingresso molto bassi, l’equivalente di 2-3 euro. A parità di incasso preferiamo l’accesso democratico di 300 persone anziché di un’élite di 40, in modo da confrontarci con un pubblico che non ha l’abitudine fissa di andare a teatro come accade in Europa o anche solo in Argentina, dove il teatro è una necessità sociale ed esiste una cultura dello spettatore. In Cile non è così: se nel nostro paese chiudessero i teatri, tutto andrebbe avanti come prima per la maggior parte della popolazione.
Riguardo ai fondi pubblici, ci poniamo inoltre un problema etico: come possiamo chiedere soldi allo Stato per finanziare il nostro lavoro teatrale, se vicino a noi ci sono persone che muoiono di freddo, in una situazione di diseguaglianza brutale? Credo che ci siano cose molto più importanti del teatro, e anche questa è una contraddizione che viviamo: a volte mi vergogno di dire che sono un regista teatrale. Vorrei che il teatro avesse nel mio paese una forza sovversiva, ma sono pessimista. Non c’è niente che muova veramente, siamo troppo abituati allo stato delle cose e nessuno si indigna per niente. Come può il teatro competere con delle tragedie come la guerra in Palestina? Se nemmeno questi accadimenti smuovono le persone, cosa può fare il teatro? Cosa possono fare un regista e degli attori che mentono e lavorano di fantasia? Perché e per chi fare teatro oggi?
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ph Ilaria Scarpa
Domande del pubblico
Il vostro modo di raccontare un passato importante con un linguaggio innovativo cattura l’attenzione del pubblico, e questo è fondamentale per avvicinare noi europei alla storia cilena. Questo vale anche per i giovani cileni, perché può aiutarli a farsi delle domande su temi che si ripercuotono ancora oggi nella politica?
Tutti i cileni oggi si pongono le nostre domande. Ma la nostra è l’unica generazione ad avere il coraggio di fare queste riflessioni pubblicamente e senza paura. Le contraddizioni che solleviamo sulla figura di Allende mettono in crisi le persone che hanno vissuto l’ascesa del suo governo, perché li portano alla colpevole consapevolezza di essere stati complici dell’attuazione dei suoi ideali. I nostri genitori hanno molta paura a parlare di politica e sono stanchi di farlo, sia perché hanno vissuto negli anni della dittatura, sia perché si continuerebbe a discutere tra idee controverse. Il Cile è infatti un paese diviso in due parti, con idee sociali molto diverse. La maggioranza della popolazione è assolutamente contenta del sistema attuale e vuole mantenere il proprio status quo in quel sistema economico e sociale che ha creato la dittatura di Pinochet e nel quale ancora viviamo, dato che la successiva democrazia si è limitata a mantenere e amministrare questo sistema, avendo stretto un patto con Pinochet di “democrazia pattuita”. L’altra parte della popolazione, che è minoritaria e riguarda soprattutto la nostra generazione, invece non accetta questo patto, e negli ultimi cinque anni ha cominciato a manifestare le proprie idee contribuendo a un grande rinnovo ideologico, tanto che oggi parlare di politica in Cile è tornata un’attività costante. Anche il governo di destra recentemente instauratosi ha aiutato, perché ha fatto di nuovo cambiare le cose rispetto a quando c’era la sinistra, alimentando ulteriormente la discussione. È difficile vivere in uno Stato con due gruppi che hanno visioni completamente diverse e che vivono nello stesso paese, e abbiamo anche provato a trasportare questa sensazione in una scena, poi non inserita nello spettacolo, dove ci chiedevamo cosa succederebbe se vivessimo in un paese diviso materialmente in due, come è stato per la Germania negli anni del muro di Berlino. Io saprei da che parte stare e non andrei dall’altra parte, così come ci sono persone che starebbero dall’altra parte e non verrebbero nella mia. Ci interroghiamo costantemente sulla situazione ambigua del Cile, dove continua a predominare la tendenza conservatrice: ad esempio, il divorzio nel nostro paese è stato permesso solo otto anni fa. Siamo molto arretrati, ma allo stesso tempo ci sono ideali molto progressisti che si stanno facendo avanti negli ultimi anni in alcune minoranze, e che riguardano la rivendicazione sessuale, la tutela degli indigeni Mapuche, la scuola pubblica, eccetera.
ph Ilaria Scarpa
Avete trattato Salvador Allende come un leader, affiancandolo a Fidel Castro e Che Guevara, eppure Allende sembra un personaggio diverso: non ha compiuto un esperimento marxista-leninista come Castro ha fatto a Cuba e come Guevara voleva fare in Colombia, ma proveniva da una società che avanzava le stesse rivendicazioni che voi state ponendo oggi. Perché non avete tenuto conto di questa differenza?
Anche io credo che Fidel Castro e Che Guevara siano molto diversi rispetto ad Allende, soprattutto per un motivo: la via di Allende per la rivoluzione intendeva essere pacifica e democratica. Ma io credo che nessuna rivoluzione possa essere pacifica e democratica. Solo Gandhi ha potuto farlo. Purtroppo tutte le rivoluzioni passano attraverso il sangue. Ciò che voleva fare Allende era un esperimento grande e unico, che non conveniva a nessuno, né a Cuba né al blocco nordamericano. Credo che Allende abbia sempre avuto uno spirito messianico: già a 10 anni diceva di voler diventare presidente del Cile. Non a caso, ha invitato Fidel Castro a vivere in Cile per un mese. Allende ha sempre desiderato essere una figura del socialismo di fianco a Mao, Castro e tutti gli altri. E in questo non trovo nulla di ammirevole.
Quella dei ventenni è ancora un’altra generazione rispetto alla vostra. I trentenni hanno vissuto la transizione tra l’epoca di Allende e quella attuale, mentre i ventenni sono nati nella piena contemporaneità, dentro al linguaggio televisivo che è lo stesso che voi mettete in scena con l’humour molto marcato, la beneficienza in diretta, eccetera. Le due generazioni non sono molto distanti in termini temporali, ma hanno una distinta percezione dell’epoca trattata. Nel vostro processo creativo è emersa la necessità di questo confronto, o è rimasta preponderante quella del conflitto tra 50-60enni e 30enni?
Naturalmente noi possiamo parlare di ciò che abbiamo vissuto in prima persona, perciò il mio lavoro drammaturgico parte dalla mia memoria e dai miei ricordi. Non posso sapere come vivono la situazione i ragazzi più giovani di noi, ma so che ci sono ventenni cileni che non sanno chi è Pinochet, né che ha governato il nostro paese con un regime dittatoriale per 17 anni. È vero, il conflitto tra queste due generazioni manca all’interno dello spettacolo. C’era solo una scena, che però abbiamo tagliato, che parlava della generazione dei ventenni: un’attrice entrava sul palco all’improvviso e gridava che fuori era iniziata la “rivoluzione dei giovani”, usciva fuori dal teatro con una telecamera che trasmetteva le immagini nei nostri televisori, e in realtà non succedeva niente.