WAR NOW! è uno spettacolo nato da una proposta della direzione artistica di Santarcangelo •12 •13 •14 rivolta al collettivo fiorentino Teatro Sotterraneo e al regista lettone Valters Silis, entrambi già ospiti nell'edizione precedente del Festival. A questo incoraggiamento si è affiancata la partecipazione produttiva dell'Associazione Teatrale Pistoiese e si è così realizzato un progetto sulla Grande Guerra, tema assegnato in occasione del ricorrere del primo centenario, a firma di due diversi sguardi europei. Dopo le residenze a Santarcangelo di Romagna e a Pistoia, tappe di incontri e il debutto nell'edizione 2014 del Festival Internazionale del teatro in piazza, i due registi (Vaters Silis e Daniela Villa) e i loro attori (Sara Bonaventura, Claudio Cirri) hanno incontrato il pubblico del Festival rispondendo alle domande dell'Osservatorio Critico in un momento di condivisione coordinato da Lorenzo Donati e Nicola Ruganti.
Cominciamo da quello che è stato innanzitutto un incontro tra due realtà artistiche. Come avete affrontato e cos’ha significato per i vostri percorsi la condivisione del processo creativo?
Daniele Villa: In gran parte è stato un salto nel buio. Non ci conoscevamo, né avevamo visto i nostri lavori durante l'edizione di Santarcangelo •13. I primi mesi sono stati un percorso di preparazione teorica e condivisione progettuale: abbiamo guardato reciprocamente le riprese dei nostri spettacoli, fatto conversazioni via Skype e ci siamo incontrati a Riga per tre giorni, per poi arrivare al lavoro in sala, in Italia, che è durato all’incirca due mesi. Nonostante la lontananza, Italia e Lettonia hanno aspetti culturali in comune, e questo ha reso semplice lo scambio sul piano teorico-contenutistico; ma il passaggio all’elaborazione del materiale scenico si è rivelato un po’ più complesso: dovevamo coniugare metodi differenti, comprendere i rispettivi sguardi. Spesso abbiamo vissuto quel senso di smarrimento che si può provare quando, parlando, si ha l’impressione di essere d’accordo con l’altro, ma poi si viene smentiti dalla pratica. Solo così però si è chiarito il significato che ognuno di noi dà alla scrittura, all’improvvisazione e alla relazione con gli attori. E pian piano tutto si è assestato. Abbiamo iniziato a scrivere in simultanea, ci siamo divisi i compiti e a volte, Valters e io, riuscivamo anche a dare le stesse indicazioni di regia. Insomma, si è arrivati a un’osmosi, fino a raggiungere in scena un risultato il cui impatto era talmente forte da mettere d’accordo tutti.
Sara Bonaventura: Rispetto al metodo di lavoro, il progetto ci ha posto di fronte a una domanda interessante: dovevamo formulare una proposta che precedesse il confronto con gli altri o aprire il collettivo già dalle prime fasi progettuali? Abbiamo scelto la seconda opzione, nuova, divertente, ma non semplice. Perché c’era da dar vita a una posizione comune e ogni decisione coinvolgeva un collettivo ampliato: questo per noi ha coinciso con una bella messa in discussione. Senza contare che non è stata prova da poco svolgere il dialogo artistico in inglese!
Valters Sīlis: Nelle prime settimane i tentativi di collaborazione sono stati vari. Spesso non andavano in porto, allora ci fermavamo, se ne discuteva. Ma una volta arrivati a Pistoia c’era un solo gruppo, e l’importante era che ogni voce venisse ascoltata. Sì, a volte le direzioni non coincidevano, ma dal confronto abbiamo ottenuto anche risultati inaspettati ed è stato interessante guardare alla prospettiva dell’altro, cercare di capire come compiere il passo successivo. Quanto alla lingua, non è sempre stato facile: quando dici dramatic ti riferisci alla rappresentazione scenica o alla tensione emotiva? Ma, nonostante le difficoltà, non ci siamo fatti immobilizzare dai problemi. Abbiamo collaborato con onestà e apertura. Devo dire che questo è stato un aspetto davvero positivo del progetto.
[Foto di Noemi Bruschi]
Dal centenario dello scoppio della Grande Guerra a WAR NOW!, quando siete giunti alla consapevolezza di voler lavorare sul concetto di “guerra adesso”?
Daniele Villa: Tutto è partito da studi di documentazione sulla Prima Guerra Mondiale. L’argomento però era potenzialmente illimitato e nel corso della ricerca ci siamo resi conto che la sua componente più attuale, la più vicina ai problemi che ci riguardano, risiedeva nei meccanismi di propaganda. Noi possiamo tranquillamente attribuire alla Grande Guerra il concetto moderno di propaganda: è stato il primo momento storico in cui per muovere il massacro su milioni di persone il potere ha avuto bisogno del consenso di buona parte di esse. Ma declinare il discorso solo su quel periodo non bastava, eravamo più interessati a inventariare i meccanismi propagandistici che tutt’ora agiscono o potrebbero agire nel generare in noi consenso o dissenso. Così ci siamo mossi a cavallo fra vari immaginari di guerra: dalla prima, alla seconda, a una fantomatica terza guerra mondiale. E lo spettacolo ruota proprio attorno ai modi e alle forme della sua rappresentazione. Di fatto, poi, questa è anche l’esperienza più prossima che ne facciamo: nessuno di noi è mai stato sul campo o in un territorio a rischio.
Valters Sīlis: Diversa era la situazione della Lettonia all’inizio degli anni Novanta. (La Russia riconosce l’indipendenza della Lettonia nel settembre del 1991, ndr)
Daniele Villa: Parlando di quel periodo sono emersi anche i nostri primi ricordi di guerra, connessi a punti di vista mediatici. Per esempio, io mi ricordo di quando a otto, nove anni vidi in televisione i bombardamenti su Baghdad durante la prima guerra del Golfo, e di quanto quel tipo di visione fosse entusiasmante per l’immaginario di un bambino.
Valters Sīlis: Raccogliendo i primi documenti è emerso un altro nodo centrale della ricerca: l’uso dell’immagine dei bambini da parte della propaganda bellica. In un museo di Riga per esempio abbiamo trovato cartoline che raffiguravano bambini di quattro anni con i fucili in mano. In seguito altri paesi hanno utilizzato metodi rappresentativi simili, col fine di rendere la guerra una realtà più accettabile. Ma l’idea di un conflitto futuro si è nutrita anche di avvenimenti contemporanei: la crisi in Siria, in Ucraina. Alcuni meccanismi bellici si ripetono, e nel momento in cui ci si interroga su cosa potrebbe succedere allo scoppio della Terza Guerra Mondiale, si pensa al nucleare, certo, ma anche al fatto che si potrebbe tornare alle trincee, al gas, ai passati metodi di combattimento. È per questo che in War Now! confluiscono vari stili di guerra. Per quanto mi riguarda poi ci sono state esperienze personali che hanno influenzato indirettamente il lavoro. Mi riferisco soprattutto a vicende connesse alla situazione ucraina: dalla tensione visibile provata da due amici i cui genitori lavoravano come ambasciatori a Kiev, lo scorso inverno, a un mio viaggio a San Pietroburgo, in primavera. Ecco, lì ho potuto osservare come la Russia, attraverso l’uso dei media e dei manifesti, stava raccontando l’accaduto e definiva il proprio ruolo. Mi ricordo che in uno di questi manifesti compariva un giovane soldato – la figura stagliata davanti a una foresta – e si usava il termine mir che ha il duplice significato di ‘pace’ e di ‘mondo’, lasciando intendere che la Russia stesse agendo in loro difesa, contendendosi il ruolo di “paciere” con gli Stati Uniti. In un certo senso, la messinscena del conflitto torna a questo tipo di comunicazione, al modo in cui oggi si narrano gli orrori del nemico e la giusta guerra di quanti si presentano nella veste dei buoni.
[Foto di Noemi Bruschi]
Santarcangelo •13 ha ospitato Leģionāri di Valters Sīlis. Frutto di un approfondito confronto con gli attori, il cuore dell’opera stava nel dibattito presente di un fatto storico che molto racconta dell’identità della Lettonia in quanto terra di confine. Rispetto a Leģionāri, come si è modificato il metodo di costruzione del lavoro per questo progetto?
Valters Sīlis: Si tratta di percorsi molto diversi. Leģionāri è il risultato della collaborazione con due collaboratori amici. É difficile raccontarne la genesi, perché è uno spettacolo nato dalle nostre conversazioni più che dalla mia regia. Da subito, ognuno aveva anche il ruolo d’autore e gli attori erano liberi di dar voce al proprio punto di vista. Ma devo dire che questo è il modo in cui mi muovo di solito: cerco di capire cosa poter ottenere dai materiali a disposizione e come farli interagire con le identità di ciascuno. Credo che l’apporto personale del performer sia uno degli elementi fondamentali del processo creativo.
Cos’è cambiato, invece, nel modo di operare di Teatro Sotterraneo?
Sara Bonaventura: Da attrice, posso dire che è stato soprattutto il rapporto tra l’azione e l’osservazione della scena a variare. Normalmente noi riprendiamo tutte le fasi del lavoro. Per cui oltre all’occhio esterno del regista, il video ci dà la possibilità di guardare con una certa distanza ciò che abbiamo costruito. In questo caso è capitato di fare solo un paio di riprese e ho sentito che sul palco lo sforzo d’immaginazione e l’attenzione erano maggiori del solito, dovevamo fidarci molto sia delle nostre sensazioni interiori, sia delle due prospettive registiche. Quanto al rapporto con la regia invece non ho notato grandi differenze: Valters lascia molta libertà agli attori e come noi si aspetta tanto dall’improvvisazione.
Claudio Cirri: Sentire la presenza e le reazioni di più persone durante le prove è stato divertente, stimolante. Si trattava di un pubblico diverso da quello cui siamo abituati come formazione. In aggiunta, con noi c’era Matteo Angius di Accademia degli Artefatti ed era la prima volta che lavoravamo con un attore esterno alla compagnia. C’eravamo confrontati con altri sì, ma solo come registi. Mi sembra che questa collaborazione abbia contribuito a portare soluzioni, energie e possibilità nuove.
Daniele Villa: Sono d’accordo. Quando mi occupo della regia ho l’abitudine di essere molto presente e c’è una buona dose di coerenza tra le mie richieste e le proposte che vengono formulate in scena. Di fronte alle indicazioni di Valters invece sono dovuto un po’ scomparire. E ho visto Claudio e Sara fornire altri tipi di risposte e fare cose che io non sarei mai stato in grado di chiedere. In alcuni casi non capivo subito cosa stesse succedendo, ma poi, osservando, scoprivo risultati che potevano piacermi. C’era in questo una certa instabilità che è stata parte della ricchezza del progetto.
[Foto di Ilaria Scarpa]
WAR NOW! Interpella lo spettatore nella dinamica del gioco di ruolo dello spettacolo e lo pone di fronte a un uso insistito del registro ironico. Torna alla mente la scena in cui qualcuno viene chiamato dalla platea per prepararsi, zaino in spalla da riempire, a una guerra che verrà e ridere con imbarazzo, e far sorridere della propria – nostra – reale impreparazione. Che tipo di scelte avete compiuto pensando alla partecipazione del pubblico e alla definizione del suo punto di vista?
Daniele Villa: L’intero lavoro è concepito come un gioco in cui il pubblico ha un ruolo specifico: a volte diventa un personaggio, a volte una funzione. Nel primo capitolo, il gioco consiste nel creare situazioni in cui gli spettatori sono chiamati a fare una scelta. Il tutto ha il registro del comico e dell’ironia, però sottotraccia lavoriamo anche sull’uso della paura come meccanismo di costruzione del consenso. Nel secondo è come se guardassimo un film hollywoodiano, in cui abbiamo cercato, alla Essere John Malkovich, di mettere il pubblico sempre in soggettiva. E nel terzo il pubblico torna spettatore, in un momento in cui il teatro viene utilizzato per celebrare una lettura mnemonica positiva della guerra. Questo è altrettanto ironico, però credo che cali un velo di cupezza, perché la situazione in cui si è messi è inaccettabile, fastidiosa, irricevibile. Cogliendo il meccanismo ci si rende conto che noi siamo mostri sulla scena, voi siete mostri seduti in platea, e come mostri dovete applaudire.
Valters Sīlis: Generalmente, quando si ha a che fare con tematiche storiche emergono gli aspetti più umani delle vicende trattate. Noi invece abbiamo scelto di portare in scena l’opposto – il disumano, il disgustoso – proprio perché al centro della questione c’è la manipolazione. Già dal 2010 mi confronto con argomenti storici, ma War Now! è uno degli spettacoli più duri che io abbia mai realizzato: siamo di fronte alla rappresentazione di qualcosa che nella realtà esiste e subisce diversi livelli di manipolazione e strumentalizzazione. Allora, da spettatore, ti chiedi: «Sono autorizzato a ridere di tutto questo?»
[Il pubblico chiamato in scena in WAR NOW! foto di Noemi Bruschi]
«Stiamo solo giocando», si dice infatti dal palco. Ma come avete affrontato la questione centrale che riguarda il rapporto tra la rappresentazione del conflitto, la partecipazione ludica dello spettatore e una realtà che poco lontano da qui non concede affatto il gioco?
Claudio Cirri: Una delle possibili risposte alla vostra domanda è arrivata l’altro ieri quando è stato abbattuto l’aereo al confine tra la Russia e l’Ucraina (il volo MH17 di Malaysia Airlaines viene abbattuto il 17 luglio 2014 a Grabovo, nell’est dell’Ucraina, ndr). Si tratta di un giocare estremamente serio: possiamo rappresentare tutto con un una certa distanza, come se stessimo giocando, ma molto spesso nella realtà ci sono dinamiche di gioco più macabre di quanto l’immaginazione e il teatro possano pensare di inventare.
Daniele Villa: E poi il gioco è una trappola. Perché, a pensarci bene, ogni ricostruzione manipolatoria di un evento si muove su un piano di irrealtà; in questo è già entertainment, gioco nel senso teatrale del termine. È interessante inserire lo spettatore in un processo simile in modo che ne sia cosciente: lo coinvolge proprio in quei meccanismi manipolatori sui quali vogliamo riflettere. Quindi dire «Stiamo solo giocando» apparentemente ne alleggerisce il vissuto, ma in realtà comunica: attenzione, questo è proprio il punto nel quale veniamo tutti fregati. Quando abbiamo letto la notizia dell’aereo, ci siamo posti un problema etico. La prima tentazione è stata quella di inserirla in modo coerente nella parte iniziale, con una domanda a bruciapelo, qualcosa che costringesse il pubblico a ridere. Ma abbiamo tirato il freno a mano, perché un conto è lavorare ironicamente su degli archetipi, un conto è ridere della specifica morte di 298 persone, con nome e cognome. La distanza storica rispetto al dolore permette un tentativo di provocazione che in questo caso non era possibile attuare.
Lo spettacolo è andato in scena per la prima volta nel luglio del 2014; in quello stesso mese, qualche settimana prima forse, lo Stato Islamico proclama la nascita del Califfato, in seguito ad una sempre più ampia espansione che lo porta a controllare l'Iraq. Probabilmente a molti di noi non era ancora chiara la portata di quelle notizie, alle quali sono seguiti altri episodi che tutti conosciamo e che hanno avuto conseguenze importanti sul modo di raccontare e percepire la guerra, sul fare propaganda conquistando fette di opinione pubblica, stravolgendo immaginari (dai video delle decapitazioni girati come serials ai fatti di Parigi).
Sarebbe interessante avere un vostro pensiero su WAR NOW! a un anno di distanza dal debutto e con un anno di Isis sulle spalle. In fondo, la domanda che vi ponevate («Quali le possibilità per l'entertainment bellico di porsi come ultima frontiera della persuasione»?) ci sembra diventata ancor più inquietante.*
Dal nostro punto di vista L’Isis fa un salto di paradigma, perché WAR NOW! Rifletteva sulla narrazione di guerra come entertainment volto a generare consenso, un’operazione che si rivolge a un target ampio e cerca di coprirlo con un una lettura spesso ideologica e schierata di una situazione di conflitto. La nostra impressione invece – senza assolutamente essere analisti in materia – è che l’Isis non punti ad allargare il consenso ma piuttosto a motivare aree ben specifiche, target precisi, a innescare appartenenze estreme anche minoritarie, senza porsi il problema dell’accettazione diffusa delle pratiche e dell’ideologia portata avanti, insomma un’operazione che per noi Occidentali così saturi dell’Era Democratica dove tutto è pensato per la medietà orizzontale del consenso diventa quasi illeggibile e quindi difficilissima da contrastare. Dall’altra parte l’Isis si rivolge proprio a noi e comunica il terrore puro, genera repulsione, cerca di instillare orrore e paura, è il contrario del meccanismo anestetizzante dei nostri reportage di guerra embedded. In questo senso siamo su un altro piano rispetto a WAR NOW!. Certo, poi c’è la forma della comunicazione, l’idea che questa repulsione sia costruita ad arte con una sapienza compositiva che ci è vicina, a noi Occidentali, che sa di cinema e serie-tv, che è dotata di una teatralità che purtroppo va ben oltre le capacità di shock di qualsiasi visione registica, con buona pace della nostra presunzione di artisti e quindi di agenti provocatori. Questo paradosso però ci stimola molto: nel tempo il cui il teatro implode e arretra, la teatralità (certo, declinata sul piano dello Spettacolo, è bene precisarlo) diventa uno degli elementi globali più trasversali e diffusi: nella comunicazione politica, nelle conference modello TED, nella narrazione di guerra, nella formazione aziendale, negli allestimenti ‘arty’ per il lancio di nuovi prodotti, nei gesti mediatici degli sportivi… in fondo quando diciamo che qualcosa è “teatrale” noi che ci lavoriamo (e ne conosciamo l’antichità) e diciamo di fare ricerca dovremmo avvertire tutta la responsabilità che ne consegue: nel generare anticorpi, spirito critico, soluzioni compositive alternative, strumenti di comprensione e autodifesa ecc… ma stiamo andando fuori tema…
a cura dell’Osservatorio Critico
con la collaborazione di Michelle Davis per la traduzione dall'inglese di Valters Silis
* integrazione del 27 marzo 2015, in occasione dell'appuntamento al Teatro Studio di Scandicci
per il festeggiamento dei primi dieci anni di attività della compagnia