[Foto di M. Mulas]
Danio Manfredini è il monaco guerriero del teatro italiano. Per lui il lavoro dell’attore è un duro esercizio di autodisciplina e un percorso di conoscenza. Una tecnica e un’etica. Richiede una dedizione assoluta e impone difficoltà e sofferenze, perché obbliga a scandagliare le parti più oscure di noi stessi. «Il teatro è un’arte dura», confida con la voce appena velata dalla stanchezza. «Attraversi dei tuguri neri, in cui il corpo ti pesa, e non ti muovi più». Il contatto, lo scontro con il pubblico non consentono compromessi: appena la tensione cala, il lavoro dell’attore diventa insensato, sciatto. Prostituzione.
Eppure, come tutti gli autentici credenti, Danio dubita. Dubita del teatro, dove troppo spesso si svuota la forza del rito. Dubita di se stesso, dei propri mezzi e qualità, o della propria costanza e dedizione, e cade nello sconforto, si chiude in se stesso, nella rabbia o nell’apatia. Finché il demone non lo assale di nuovo, e gli restituisce la forza per attraversare la propria ombra.
Persino nel variegato e sfrangiato universo della nuova scena italiana, Danio Manfredini rappresenta un caso a sé, un’eccezione che è difficile inquadrare in qualche regola. Solitario e schivo, nell’arco di oltre vent’anni ha costruito con ascetico rigore una mezza dozzina di preziosi spettacoli, per lo più assoli, replicati di rado, soprattutto per la sua ombrosa ritrosia e il suo tormentato rapporto con il teatro.
Al tempo stesso, molti colleghi lo considerano un maestro. Per la sua coerenza, per il suo rifiuto di fare facili concessioni, per la fedeltà ai suoi principi. Ma anche perché, attraverso numerosi seminari e workshop, ha disseminato un metodo e una pratica di lavoro che hanno segnato ormai alcune generazioni di teatranti. Lo spettatore viene colpito e conquistato da questo grumo di umiltà e orgoglio, di vulnerabilità e fierezza che traspare da ogni suo gesto. Orgoglio, perché si capisce che ogni gesto è assolutamente necessario, lì, in quel momento, e fa parte dell’integrità del suo lavoro, e che lui è pronto a difendere con tutte le sue forze. Umiltà, perché per distillare quel gesto è stato necessario un lavoro lungo, duro, difficile. Non è mai semplicemente un problema di tecnica (e la padronanza che ha del proprio corpo va oltre il virtuosismo), ma prima ancora una radicale messa in questione delle proprie certezze, in ogni istante. Vulnerabilità, anche perché la bellezza e la necessità di quel gesto sono un frutto fragile, e basterebbe un nulla per distruggerlo, per renderlo inutile. Fierezza, perché in questa vulnerabilità risiede l’unicità di ogni esistenza, il suo valore più prezioso.
Oliviero Ponte Di Pino
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@olivieropdp]
Saggista e critico teatrale, da tempo attivo nel campo dell’editoria, fondatore della webzine
Ateatro.it
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