[Ritratto fotografico di Ilaria Scarpa]
Il ghirigoro, il merletto, il ricamo è futilità barocca per chi non conosce il fascino vertiginoso della linea curva, della spirale, dell’intreccio labirintico che fa perdere e ritrovare. È inutile decorazione per chi non sa ascoltare il silenzio che grida in meandri che riproducono le volute del cervello, i movimenti infiniti del corpo, anche quelli invisibili, gli incastri dell’esistenza, le forme vegetali che all’improvviso erompono in teneri boccioli, in progetti di slanci verso gli imprevisti di nuove vite. Il pensiero lineare non coglie il fascino dello scarto, la lentezza gioiosa e enigmatica dell’arabesco, le sue accelerazioni, le scoperte che erompono, che erodono, in una tensione che sta tutta in pulviscolari “fra”.
La danza di Fabrizio Favale è tutta nel ricamo, nell’arabesco. Sfugge il significato e cerca le disponibilità dei corpi; guarda con infinito stupore i movimenti della natura e i segni segreti del mito. Per questo ha attraversato parti di poemi indiani, in cerca di un sacro che dalla vita contemporanea ci sfugge, o forse solo di un fascino lontano (esotico) di posture, gesti, esplorazioni. Ha cercato i movimenti dei branchi, delle mandrie, quelli delle nuvole. Ha ascoltato gli alberi, gli uccelli. Evoca fantasmi.
Lavora preferibilmente nelle zone che sfuggono alla luce, nella penombra, nel vento, nelle piume, negli intrecci di braccia, gambe, membra, senza sfiorarsi, componendo fantastici ideogrammi, esplorando impossibili emulazioni. Niente teatro-danza: danza-poesia. Non c’è storia e le stesse imitazioni naturali risultano tentativi consapevolmente inani di rapinare la vita per frammenti privi di significato.
L’individuo e il gruppo. Lo sforzo di riempire il nulla che ci circonda e che ci risucchia. Un ricordo d’infanzia. Un epos depositato in posture corporee.
Per Favale la danza esplora le cose, l’universo, la psiche. Scrive, da qualche parte: «Noi vogliamo dimostrare che forse non è l’uomo a essere l’oggetto prediletto della danza, ma qualcosa d’irraggiungibile, stellare. La danza somiglia sempre meno a noi e sempre più a un evocare che non ha oggetto. Un evocare un altrove che desideriamo ardentemente, ma che non sappiamo cos’è. De-siderio, è qualcosa che riguarda le stelle: la danza, dunque, è da sempre siderale».
Vedi nelle sue coreografie baleni, disegni dell’impermanenza con braccia slanciate, corpi sfasati, slogati, ricomposti. Gli interpreti sono insieme controllati e pronti a metamorfosi iperboliche fatte di un gesto, un piegamento, uno squilibrio, un intreccio. Si catturano, si avvinghiano, si proteggono, si distaccano. Si insinuano, formano morbidi gruppi scultorei che subito si divincolano, si imperniano, si riuniscono, si moltiplicano, si sciolgono come pianeti, come falene, si sorreggono. Un gesto. Una fiamma. Un fuoco di corpi, di mani e braccia, una leggera sospensione del tempo che macina e trasforma la presenza in divenire. Uno scorrere. Uno sparire. Un’aria che trascina e trattiene. Un sollevarsi all’assenza.
Massimo Marino
Studioso e critico teatrale. On line su Controscene e Doppiozero/Scene [twitter @minimoterrestre]