[Claudio Morganti, ritratto di Ilaria Scarpa]
È tempo che esca dal tempo astratto
del mercato,
per ricostruire
il tempo umano dell’espressione necessaria
Parto di qui, ricordando, con le parole di Antonio Neiwiller (
Per un teatro clandestino, 1993), uno stile e un’etica di ricerca, un modo di essere in scena, di abitarla, di condividerla, che da sempre caratterizzano il percorso di Claudio Morganti e che, pur nella lontananza, lo rendono ai miei occhi così intimamente vicino a Neiwiller. Perché il teatro è fatto anche di fratellanze profonde, di vite stratificate in ricordi e incontri, di echi che risuonano, a volte impercettibili, ma essenziali. Il tempo di mettersi in ascolto è per Morganti quello di uscire dalla dimensione astratta dello spettacolo per ricostruire il tempo concreto e necessario del teatro. Come? Da attore, perché senza l’attore il teatro non accade.
Il teatro talvolta accade, ama ripetere Morganti. Accade con qualcuno e per qualcuno che ascolta. Il teatro avviene anche quando parla di teatro; in Morganti, soprattutto quando parla di teatro, perché è quell’esperienza fatta anche del rovello di un pensiero che si sperimenta, che cerca le parole per dirsi. La riflessione ostinata, continua, condivisa con i compagni di strada entra nella tessitura della recita, si infila fra le maglie del dire, nelle immagini proposte, nelle parole e negli sguardi.
Un solo esempio, ormai lontano nel tempo.
Sul lato sinistro, in proscenio, Morganti immerge le mani nell’acqua e si cosparge il viso di farina, crea la maschera. Parla direttamente al pubblico, secondo la consuetudine del prologo, con voce pacata, pausata: «Questo è uno studio sulla maschera della vecchiaia». Uno studio che, aggiunge, parte da un famoso testo del Novecento. Tutte le parole sono state cambiate, ma intatta è la struttura drammaturgica. È possibile che il teatro accada ugualmente? Creata la maschera, Morganti, con lievissimi e quasi impercettibili mutamenti di postura, esce dal prologo, e con piccoli passi incerti, con l’andatura resa malferma da scarpe femminili sformate e ridicole, entra nel teatro. Il teatro è un tavolo al centro della scena, illuminato da un lampadario e da un’abat-jour. Un tavolo e un registratore. La maschera è quella di Krapp. È il prologo dell’
Amara sorte del servo Gigi.
Mettersi in ascolto, per noi, è allora imparare ad accogliere quel tempo dell’espressione necessaria dell’attore in scena: un’esperienza che passa attraverso la grana pastosa della sua voce, il timbro sofferto e ironico della sua parola, il gesto stilizzato eppure intimo, astratto eppure analogo ad altri vicini e quotidiani, le sfasature ironico-grottesche del suo abitare la scena, la leggerezza del tocco, la crudezza e la geometria della struttura drammaturgica, scarnificata e resa essenziale; i delicatissimi passaggi da una maschera all’altra, che sono i diversi modi di agire la mimesi. Mettersi in ascolto, perché tutto ciò ci riguarda, come ci riguarda un atto di vita. Anche quando, assottigliando il velo della finzione, Morganti investe la sua presenza scenica con la riflessione esplicita sul teatro, anche allora ci riguarda come un atto di vita. Ed è una vertigine dell’esperienza.