«La testa pensa dove posa il piede»: era il titolo di una iniziativa della comunità argentina in Romagna. L’ho visto su un grande manifesto, qualche anno fa, e mi è rimasto impresso. Quando mi hanno chiesto di scrivere di Fiorenza, è la prima cosa che mi è venuta in mente: «La testa pensa dove posa il piede».
Associo questo posare alle gambe di Fiorenza, alle sue caviglie sottili e forti che spuntano da anfibi per grandi percorsi, per percussioni su palchi musicali, o – avvolte in calzini più sottili – da scarpe col tacco, per personaggi di altri decenni… da altri modi di vivere. Giunture che legano la terra alla voce, ne determinano la modulazione sul passo deciso – anche pesante, se necessario – di chi sa che non può permettersi di farsi frenare dalla paura.
«Tu sai com’è l’attore, certe attrici…», mi disse un giorno Fiorenza: eravamo sul finire degli anni novanta, accanto alla cucina dei Masque, «se non ci fosse la possibilità di fare teatro, potrebbe perdersi». Un’anomalia che il teatro aiuta a comporre, quale che sia la struttura drammaturgica nella quale si inserisce, escludendo in ogni caso, in ogni struttura performativa, la tentazione della riproduzione realistica. Come se Fiorenza portasse sempre con sé, sulla scena, una dichiarazione di realtà “altra”: sia la pellicola, sia l’esperimento illusionistico, sia il ritmo delle composizione musicale, del concerto. Fino alla dichiarata esposizione di lingue e culture “altre”: la scena come luogo per un reportage, in pubblico, di altre possibili vite, di altri modi di vivere – e di parlare.
«Mi sono ritagliata uno spazio per “allenare” gli attori: mi piace molto», mi ha detto un’altra volta, a Milano. Allenare a dire, soprattutto – questo almeno io colsi in quell’occasione – un dire che trova nella voce non lo strumento, ma l’oggetto. Sempre che le caviglie reggano.
Renata M. Molinari
Dramaturg e studiosa di teatro
[Fiorenza Menni, ritratto di Ilaria Scarpa]