[Silvia Calderoni, ritratto di Ilaria Scarpa]
C’è una pianta selvatica nella scena italiana, un alberello cresciuto in una crepa dell’asfalto. Perfomer, mannequin, animale da scena, bussola randagia, sono alcuni degli spigoli picassiani che Silvia Calderoni offre al concetto di attrice. Efebica, conturbante, si nutre dello sguardo di chi segue il suo richiamo e a sua volta cattura prede eterodosse col proprio occhio mai pago. È un essere che permane negli spazi del passaggio, nelle soglie tra gli stati e gli stadi. Lì, in quella condizione di ragazza-ragazzo, infante secolare, felino-cane, calce viva-clorofilla, capta e elabora l’umano restituendone le più remote dimensioni.
Come presenza muta, sorale, si è fatta poesia fisica nell’universo scenico del Teatro Valdoca, assorbendo e riflettendo la tenerezza sorgiva del verso di Mariangela Gualtieri e l’energia fluviale di Cesare Ronconi. Nel mondo Motus conduce con Enrico Casagrande e Daniela Nicolò esplorazioni verso il centro della terra, alla ricerca dei ceppi rivoluzionari, degli archetipi della rivolta, per soffiarvi sopra un alito che li riattizzi ancora, per riallacciare un cordone ombelicale teatro-mondo che rischia di atrofizzarsi.
Col suo corpo giacomettiano parla di una sottigliezza insvelabile e ci istruisce nel sillabarla come tale, nel contemplarne la rifrazione aspra, nel sentirne la vulnerabilità e farne la nostra dolcezza. Credo Silvia, come il leggendario Kaspar che la abita, provenga da un pianeta sconosciuto, da uno scoglio dimenticato e da un tempo rotondo. La sua scuola è un caos di idee chiare: un ascolto irriducibile di sé e dell’altro, col quale misura l’aria, e che le dice come stare nelle cose; una prontezza di riflessi in termini amorosi; uno stare che risuona, insieme, come solo e come coro, disobbediente soprattutto alla proibizione di contraddirsi.
Ora Silvia e Motus ci conducono - con il giovane filosofo, poeta e attivista magrebino Mohamed Ali Ltaief detto Dalì - in una tenda da campo, o forse è la stiva di una nave, oppure è una trincea. Sullo sfondo è evocata la primavera araba, la sua proiezione, il suo fallimento. In Caliban Cannibal ci si sente sopra un confine, tra il fuori e il dentro, tra l’oggi e il domani, tra l’agire e il contemplare. È la costruzione di uno spazio poetico nel quale scrutarsi interiormente, nei moti di fuga e nella fame di tregua; lì viene accolta la nostra domanda di asilo, la parola si fa impropria e sospesa, e si prepara uno stare pienamente in ogni attimo, in ogni margine. Mentre l’Ariel shakespeariano, nella vana attesa di libertà, cerca la propria umanità nelle tempeste del Mediterraneo.
Cristina Ventrucci
operatrice teatrale