Per molto tempo ho idealizzato la vita dei teatranti, gruppi inquieti in movimento, famiglie aperte, formate preferibilmente di giovani, in dialogo con un pubblico sempre diverso ma partecipe di una stessa passione, nel reciproco riconoscimento. Utopia in atto, in cammino; embrioni di mondi migliori. Col tempo, la delusione. Le stesse meschinità e rivalità che altrove, le stesse logiche più distruttive che costruttive, soprattutto quando la storia prendeva strade diverse da quelle sperate, e la società si involgariva, chiedeva più dimenticanza che veglia, più conferme che aperture, più ripetizione che novità. Per di più, dal punto di vista di una sicurezza economica (perché ci si sposa, perché si invecchia) e dal punto di vista del riconoscimento (quel “successo” che, diceva Carmelo, è sempre participio passato del verbo succedere), molti sono i chiamati e pochi, pochissimi gli eletti, anche in rapporto alla strabordante quantità di “vocazioni” soprattutto negli ultimi decenni. La vocazione dicono tutti di averla, e talvolta è anche vero, ma il talento? E la fortuna, ovvero la capacità di saper fiutare il tempo e praticare i rapporti con coloro che, nel settore, contano e decidono – il cosiddetto mercato? È una bella vita quella dell’attore, e in particolare di quello che ha una vera vocazione e non potrebbe, non saprebbe fare altro?
[Foto Ilaria Scarpa]
Lo spettacolo che Danio Manfredini ci ha offerto, è un collage di situazioni desunte dai classici - da autori di teatro che il teatro conoscevano bene, in tutta la sua grandezza e in tutte le sue miserie.
È straziante e comico, pietoso e spietato. Perché Danio Manfredini conosce molto bene ciò di cui parla e sa il peso e la gloria – più il peso che la gloria – del “lavoro teatrale”. Ci commuoviamo e a tratti ridiamo, di questo memento. Tra Minetti e Lear e il Gabbiano, i vecchi re e i vecchi attori si scambiano le parti e diventano una stessa cosa, sconfitti dall’implacabile trascorrere del tempo, dalla comune perfidia degli umani e dei teatranti in particolare, dall’inconciliabile iato tra la vocazione e la realtà, tra l’utopia e la verifica, tra la scena e la vita. Non è un idillio, la vita del teatro, e non lo è il teatro della vita.