Rompe il silenzio la porta d’ingresso che sbatte, e si chiude alle spalle. Il pubblico resta in un buio uterino. Non è un’accoglienza quella in questione, piuttosto è un impatto, un rinascere d’udito e di sguardo che percorre la strada al contrario. Poi, dopo un tempo d’attesa, il primo suono giunge al di là di una tenda: è un tramestio di voci che precede l’andare avanti degli spettatori, il loro preambolo da uno spazio all’altro, da un tempo a un altro. A poco a poco, materialmente, i limiti che oltrepassiamo diminuiscono di spessore: la stoffa della tenda, il nailon interposto fra due zone adiacenti, la voce, l’immagine dell’attore. Solo adesso, raccolti nell’alcova-teatro, possiamo sederci, capire quali sono le condizioni del nostro guardare, testare la scomodità delle sedie.
[Foto Ilaria Scarpa]
Siamo nello spazio Saigi, per il Mit Lenz di Claudio Morganti e Rita Frongia, con Antonio Perrone. Ora, più che scendere nei dettagli di ciò che va oltre l’inizio, forse si può raccontare di un pubblico trainato verso il teatro in modo apparentemente dolce, ma in realtà brutale, perché tutto ciò che accade svela il gesto inevitabile di chi deve indossare la maschera, anche durante i momenti di dialogo diretto in cui il Lenz di Büchner e la sua messinscena vengono spiegati da Morganti, una volta fuori dalle vesti del pastore Oberlin; anche quando accogliamo dalle sue mani il passaggio dell’acqua di rose, in un momento di finto intervallo, pensato perché lo provassimo. Avviene, in questo breve percorso, il riconoscimento violento dell’arte teatrale, e l’ambiguo appagamento che ne deriva nel silenzio che le si fa attorno. L’immagine cardine di questa sensazione è quella in cui Antonio Perrone, presenza fisica e consistente ‘materia attoriale’ non esce mai dal personaggio di Lenz, sta dietro al velo di nailon: corpo contratto, voce che urla contro la propria ombra, nella follia del poeta.