Il centro Tempo Reale è stato fondato da Luciano Berio nel 1987 ed è un punto di riferimento internazionale per la musica elettronica e la ricerca attorno alle nuove tecnologie. Una densa attività di formazione e produzione si presenta alla città dal 5 al 13 ottobre 2012, durante il Tempo Reale Festival: concerti, passeggiate sonore, teatro, installazioni. Incontriamo il compositore, musicista nonché direttore artistico di Tempo Reale Francesco Giomi
Come nasce, e da dove parte, la ricerca attorno al «Paesaggio della voce» nel femminile, dal titolo Rumore rosa?
Per prima cosa devo dire che Rumore rosa è un punto di osservazione che funge anche da pretesto, perché a ben guardare ci sono varie linee che attraversano l'edizione 2012 di Tempo Reale Festival. Il discorso sulla voce femminile è un focus, una lente che viene da lontano. Nell'avanguardia musicale la voce femminile è stata molto esplorata, e ha dato risultati eccezionali. A mio avviso è stata crocevia dei percorsi più rilevanti in tutti i generi musicali, anche nel rock o nella musica leggera. Possiamo individuare anche una chiave “politica” nel nostro titolo. Veniamo da vent'anni in cui l'immagine della donna e dell'artista è stata devastata da modelli assurdi. Nel nostro piccolo, rifocalizzare su questo nodo mi pare importante. Dicevo però che ci sono anche altre linee, come quella legata al mondo angloamericano. Nel 2012 si festeggia l'anno Vespucciano, e Firenze è fra i capofila. Un altro percorso indaga il rapporto con gli spazi sonori della città. Ce ne stiamo occupando da alcuni anni, sia attraverso una sensibilizzazione all'ascolto sia nel merito di interventi creativi sui luoghi.
Nel programma sono effettivamente presenti molti percorsi legati al soundscape, all'ascolto dei luoghi attraverso i Soundwalk. Considerando l'epoca di proliferazione visuale che stiamo attraversando, forse la memoria sonora dei luoghi acquisisce una nuova chance?
La memoria è qualcosa in continua mutazione. Quest'anno inauguriamo il percorso Come suona Firenze in un un luogo incredibile alle porte della città, l'oasi di Focognano. Si tratta di una zona umida verde, stretta fra una discarica e l'autostrada. È chiaro che l'autostrada è un fenomeno antropico recente, ma è anche evidente come il suo suono sia ormai definito: ha una collocazione nello spettro acustico delineata, con una dinamica costante, ed è entrato a fare parte della stratificazione mnemonica di Focognano. Non possiamo intervenire su questa memoria, possiamo solo prenderne coscienza, attraverso un processo di sensibilizzazione. Il suono dell'autostrada è sempre presente, potrebbe essere quindi incorporato dall'organismo, e quindi cancellato; ci si abitua e non lo si “sente” più. Invece è compito del conduttore del soundwalk sensibilizzare gli spettatori non solo rispetto ai suoni “belli”, legati alla natura, ma anche far riflettere sull'esistenza di una massa sonora differente ma altrettanto importante. Ognuno sarà poi libero di trarre le sue conclusioni, ma tale aspetto ecologista mi interessa relativamente, almeno in questa fase. Mi sembra invece fondamentale fare in modo che il nostro orecchio resti sensibile alla grande diversità di suoni, dal momento che fin da bambini siamo bombardati da rumori televisivi che non fanno altro che diminuire la nostra sensibilità d'ascolto. È importante che ci rendiamo conto come il suono di certi luoghi potrebbe scomparire, e portarsi dietro tutta una serie di peculiarità, di singolarità che costruiscono significati, rarità e piacevolezze. Quando siamo realmente nel silenzio della natura, che non è mai un silenzio da camera anecoica, possono infatti emergere piccole valenze sonore anche di grande qualità, e che incidono molto sulla sensibilità dell'ascolto.
Quest'anno ci focalizzaziamo su percorsi “naturalistici”, ma abbiamo in programma dei soundwalk che osserveranno anche gli elementi antropici, come il suono del lavoro dell'uomo. Pensiamo ad esempio alle tante botteghe artigiane fiorentine, il cui patrimonio sonoro, nel tempo, potrebbe sparire.
Scrivete nel programma che le tecnologie hanno permesso a molti la possibilità di sperimentare. A suo parere, ciò ha coinciso anche con la nascita di nuovi “discorsi musicali”?
Le tecnologie digitali hanno allargato tantissimo le possibilità espressive, e questo è un bene. Molte più persone, molti giovani, possono sviluppare personalmente la propria creatività, e ciò accade nella musica ma anche in altre discipline, come nella grafica. Sono però dubbioso che tale processo corrisponda anche maggiori possibilità per l'ascoltatore. Ci sono tanti prodotti, c'è molta più musica di quanta ne potremo mai ascoltare. Il compito del selezionatore diviene di vitale importanza, e risiede nell'intuire, nel capire, e nell'evidenziare quelle esperienze che hanno una profondità, che hanno un valore da un punto di vista della drammaturgia musicale. Occorre fare un grande sforzo per distinguere ciò che ha un valore da ciò che, pur legittimo, deve restare nel privato. Rumore rosa è anche una parafrasi, una metafora di questo ragionamento. Viviamo immersi in tanto rumore e ci troviamo di fronte a del marmo bianco (o rosa) che va scavato, per trovare al suo interno le figure più interessanti. Qui non posso non citare il fenomeno della nuova elettronica commerciale, dove alcuni personaggi sono certamente di valore, mentre molti altri presentano un livello di profondità e consapevolezza molto basso. Solamente grazie alla moda riescono ad emergere, non certo in virtu di progetti linguistici innovativi. Quello legato alla nuova tecnologia è un discorso molto complesso, per il quale non posso che esprimere un parere del tutto personale.
Sempre nella presentazione si leggono alcune riflessioni sul concetto di rumore, che da tempo è entrato a fare parte dell'idea stessa di musica. È ancora possibile, oggi, trovare nuovi suoni?
Sì, è ancora possibile, e gli strumenti digitali sono una grande fucina per produrli. Il problema è capire come questi suoni si inseriscano in una struttura. Capire il modo in cui i suoni nuovi, i suoni vecchi o i suoni ottenuti con dei bastoncini di legno (come la musica di Steve Reich) possano concorrere a formare un pensiero musicale. Cito Steve Reich non a caso, il suo percorso ci dimostra che i bastoncini di legno o il battito delle mani possono creare qualcosa di estremamente interessante, ma solo se c'è un pensiero alle spalle.
Il Centro Tempo Reale, negli ultimi anni, si è però mosso in un versante diverso rispetto a quello di cui stiamo discutendo. Abbiamo lavorato attorno alle interfacce, alla gestualità, all'interattività. Ci siamo interrogati sulla costruzione di nuovi strumenti musicali, abbiamo progettato nuovi “concetti” di strumenti musicali basati sull'interazione, sul movimento delle mani, sulla manipolazione di oggetti.
Nel festival presentate due opere teatrali, West di Fanny & Alexander e Carne Trita di Roberto Castello. Alcuni maestri del teatro, da Carmelo Bene a Claudio Morganti, sostengono che l'organo più importante a teatro non sia la vista ma l'udito. Cosa, in particolare, vi ha interessato nei gruppi teatrali presenti al festival?
Il ragionamento ci porta a introdurre il concetto di “teatro sonoro”. Gli artisti citati hanno compreso l'importanza del suono e dell'ascolto, e sono in compagnia di una serie di esponenti del nuovo teatro di ricerca. Possiamo anche allargare il campo al “teatro musicale”, che storicamente è stato separato dal teatro, ed è governato da istituzioni che oggi non si pongono minimamente il problema di una evoluzione del linguaggio, non prendono in considerazione la possibilità di tracciare delle linee innovative, di affrontare dei percorsi di ricerca. In generale, anche le opere nuove di teatro musicale esprimono attualmente un livello di ricerca molto basso, nonostante la grande disponibilità di risorse delle istituzioni che se ne occupano. Questo vuoto, a mio modo di vedere, è in parte colmato da compagnie teatrali che esplorano il rapporto fra parola, voce, gesto e azione scenica. Per forza di cose si tratta di percorsi che guardiamo da molto vicino, e che pensiamo di dover incontrare per mettere a disposizione la nostra esperienza nella musica elettronica. Penso a Teatro Valdoca, alle Albe di Ravenna, alla Socìetas Raffaello Sanzio, oltre che a Fanny & Alexander e altri più giovani, come i Santasangre. Con i Fanny abbiamo collaborato per lo spettacolo T.E.L [intervista a Marco Cavalcoli e Chiara Lagani], sviluppando un tavolo sensibile. In generale, tutto il lavoro recente di Fanny & Alexander va in questa direzione di complessità sonora. Nei loro spettacoli sono presenti più strati acustici, più livelli di significato, più prospettive di vicinanza e lontananza di ascolto, ma si tratta di una ricerca nel suono che avviene all'interno del teatro. Dal mio punta di vista, lo spettacolo West, che presenteremo al festival, è un'esperienza significativa di teatro sonoro, ma andrebbe anche bene definirlo teatro musicale.
Venendo invece a Carne Trita di Castello: in scena alcuni ci sono alcuni danzatori che si muovono coreograficamente e che conducono un lavoro sulla voce senza testo, basato su una comunicazione pre-verbale. C'è evidentemente un richiamo alle esperienze degli anni '50 e '60, con Luciano Berio in testa, ma questo non è un male, anzi. Ci interessa l'idea di una stratificazione della tradizione che punta a qualcosa di nuovo.
L'ambito produttivo di Tempo Reale rappresenta una parte consistente del lavoro che fate durante l'anno. Ce lo racconta?
Musica comunista, che presenteremo il 13 ottobre, è un esempio diretto del nostro lavoro di produzione. Si tratta di un progetto che mette in gioco giovani energie creative nel confronto con idee musicali degli anni sessanta. Per esempio l'idea che gli interpreti possano lavorare insieme per costruire una partitura, e acquisire così la stessa dignità dei compositori. In generale è questa la linea forte del nostro percorso di produzione, che propone opere originali ma che punta anche rimettere in circolo idee del passato, con l'ambizione di ricavarne qualcosa di significativo per la musica di oggi. Nel progetto affianchiamo la musica del compositore inglese Cornelius Cardew, che alla fine dei '60 si appunto iscrisse al Partito Comunista inglese, con quella di Karlheinz Stockhausen, di cui presentiamo la penultima opera per sassofono e musica elettronica, scritta prima della morte. L'anno scorso avevamo fatto una produzione che rifletteva sul paesaggio sonoro, mettendo insieme musicisti elettronici ed elettroacustici: in The Great Soundscape Session, questo il titolo del concerto, l'elemento del paesaggio sonoro era stato inserito in una composizione drammaturgica curata da Elio Martuscello.
Volendo poi ragionare in termini generali, posso dire che per Tempo Reale il concetto di composizione ottocentesco è superato. Committente-compositore-partitura-esecutori: questo modello, che ci ha consegnato la tradizione, pur avendo ancora ragione d'essere è per noi poco significativo. Oggi si può guardare avanti, introducendo esperienze più collettive: unire figure con competenze differenti, sfidare una messa in gioco comune in grado di portare al ritrovamento di elementi linguistici peculiari.
Un altro versante che abbiamo sondato negli ultimi anni è stato quello della musica improvvisata. Abbiamo collaborato con figure legate al jazz d'avanguardia, come David Moss e Uri Caine. Per il resto, le persone di Tempo Reale sono impegnate a curare i lavori di Luciano Berio, il nostro fondatore, e ovviamente in concerti dal vivo.
Chiudete la presentazione del programma con una definizione del vostro lavoro: «Una musica di pensiero».
Una musica di pensiero si contrappone a una musica superficiale, e questo vale per tutti i generi musicali. Ogni tipo musica è necessario e importante, ma Tempo Reale sceglie di ricercare nell'ambito della musica di pensiero. È una musica che riflette su se stessa, che esprime una profondità, che si sofferma sui meccanismi. Faccio spesso l'esempio del cinema. A Hollywood ci sono ottimi registi che propongono un cinema immediato, di superficie, come per esempio Ridley Scott. Ci sono però anche cineasti che lavorano su diversi livelli di profondità, come Quentin Tarantino. Il cinema di pensiero, come la musica, lavora sulle strutture, sui linguaggi, sulle organizzazioni temporali. Pur preservando la comunicatività, la musica di pensiero deve sollecitare chi ascolta a prestare attenzione ad aspetti non legati alla superficie.