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ARTICOLI > Fessurazioni, archeologie, pieghe, trasmissioni. Conversazione con Virgilio Sieni

Abbiamo incontrato Virgilio Sieni all’Università di Bologna. Con lui attraversiamo alcune parole chiave del suo lavoro, utili come introduzione all’intero progetto bolognese.

Cristina Tacconi: Considerando che La Sagra – avendo come riferimento quella di Nijinsky – rimanda a un rito profano, la Cena Pasolini a un rito religioso come l’Ultima Cena, e la cena stessa a un rito familiare/profano, si può pensare che gesto sia riconducibile al rito?

Virgilio Sieni: Pensando al corpo, a tutte le accezioni del corpo, bisogna per forza includerlo in un sistema molto più ampio, quotidiano, ancestrale, un sistema composto da una stratificazione di elementi strutturati, cerimoniali, rituali. Il rito dovrebbe avere questa funzione di fare emergere l’uomo “nuovo”, e quindi una funzione ciclica legata alla morte e alla rinascita. Anche quello che si intende come danza, come mettere in opera la persona attraverso quello che è il sistema trasfigurante del corpo che si muove, ha questa funzione. Attraverso la sudorazione, i liquidi, la possessione, l’invasamento, la tattilità con l’altro, la danza ha la funzione di muovere, di spostare un corpo strutturato quotidianamente. Quindi quando parlo di gesto includo in esso anche tutti questi aspetti legati alla trasfigurazione.
Non intendo il gesto quotidiano tout court, ma intendo lo stesso gesto, anche quello quotidiano, praticato e eseguito in una forma diversa e questa include una consapevolezza, uno sguardo differente nei confronti del gesto stesso, per comprendere tutto quello che è il saper condividere e convivere con questo gesto e con gli altri. Data quindi la forma cerimoniale, l’accostamento, la vicinanza, la tattilità, il modo di essere dislocato in uno spazio, la vicinanza del rito alla coreografia si fa molto prossima. Con la coreografia si passa a una forma rituale che include l’emergere di una struttura, al contrario di quanto avviene nel gioco che è la decostruzione completa della struttura,
Il danzatore, che in questo caso ha frequentato le prove della Sagra, ha fatto un percorso di sensibilizzazione del corpo, attraverso una serie di esercizi e di modi di essere. E quindi la Sagra che ne scaturisce non è una visione “colonialista” del rito. Ho visto altre Sagre interpretate da altri coreografi contemporanei e ho avuto un po’ l’impressione di una colorazione, di una decorazione di quello che ci si immagina del rito: unisoni, piedi che battono, sudore… Al contrario con la compagnia mi interessava fare un percorso di sensibilizzazione, per percepire cosa sia veramente la questione del gesto oggi rispetto a una dimensione rituale.



Lucia Oliva: La Sagra è uno dei capisaldi della storia della danza al punto che la conosce anche chi di danza più di tanto non si interessa. Come tu hai accennato ci son state tantissime rivisitazioni nel corso del Novecento, a partire dalla sua forma primaria, l’origine di questo balletto fantastico, anticonformista, rivoluzionario, violento. Una danza con una storia molto caratterizzata e anche molto imponente. Come ci si avvicina come autore oggi a questo tipo di eredità?

V.S.: Sicuramente, attraverso Stravinskij, la prima versione di Nijinskij ci arriva subito con un impronta molto definita. È un impronta secondo me da osservare con molta attenzione perché in fondo a Stravinskij è stato richiesto di immergersi in una dimensione che potesse comunicare anche quella che era una sua natura di compositore. Non a caso lui ha affermato che La sagra della primavera è stata una composizione che gli è stata praticamente “mandata”, che gli è stata sussurrata, che non ha veramente composto. Si entra già qui in una dimensione quasi di viaggio, di estrema sensibilizzazione, quindi di ascolto.
Se è vero che il concetto di dono esiste proprio perché entriamo in una radura molto tenue ma tesa, che è quella che ci predispone a un ascolto – ciò vale a dire che nel momento in cui sono in attesa del dono entro in una tensione, tendo, entro in un momento di attesa – non per ricevere il dono ma nel creare quel territorio di ascolto molto intenso. Non è come una cambiale che ha una scadenza: «entro il 23 marzo ricevo il dono», al contrario entro in un territorio in cui probabilmente non arriverà l’oggetto, bensì ciò che arriva e si mantiene sospeso è questa intensità del dono.
Ho riletto le Georgiche di Virgilio e paradossalmente c’è veramente una decenza rispetto a tutto ciò che è la dimensione misterica del rito e le forme primordiali che portano a una sua strutturazione. In fondo, quando Stravinskij compone e Nijinsij crea la coreografia, non fanno altro che formalizzare e rendere in struttura un pensiero sul rito. I danzatori stessi di Nijinskij erano tutti ballerini provenienti dalla tecnica classica accademica e quindi abbastanza indispettiti. Per questo forse La Sagra di Nijinskij è quella più rivoluzionaria. Lui ha tentato di fare un lavoro quasi molecolare perché ha introdotto nei loro corpi delle posture non adatte a quei corpi: l’en dedans, le posizioni fisse, quei gesti. In poche parole si è incuneato in una struttura già stabilita e ha creato uno shock. Paradossalmente, anziché lavorare sulle capacità dei danzatori, sulle cose che sapevano fare meglio, li ha messi in crisi totalmente. Probabilmente Nijinskij ha attuato quello che è il primo movimento del rito, cioè mettere in crisi il corpo nel suo stato attuale e iniziare questo viaggio di rinnovamento. Nel momento in cui si introduce nel corpo un elemento diverso rispetto a un’abitudinarietà è chiaro che si entra in crisi, si entra in una dimensione di disagio. E questo è molto interessante per quanto riguarda il senso della danza, dell’andare a creare un dialogo fra tutto quello che è stato strutturato nel corpo, attraverso i codici, le esperienze, e quello che invece è l’intruso. Si capisce subito che la danza non è un sentire tout court, è qualcosa che deve accettare un intruso e quindi provare la dimensione del disagio.
Qui siamo alla dimensione di pre-rito, più che di rito, perché il rito è invece una forma estremamente strutturata ma allo stesso tempo anche estremamente accogliente, basta pensare ad alcune tribù dell’Amazzonia nell’inizio del Novecento, come racconta Lévi-Strauss. I Bororo fanno una danza in cerchio e l’antropologo trova alcuni degli interpreti del rito con degli occhiali finti, senza lenti, e chiede la ragione di quegli occhiali posticci. Semplicemente avevano visto degli occhiali addosso a un missionario e subito li avevano assimilati nel rito come una sorta di make-up, come un oggetto inutile, gratuito. Questa è la peculiarità del rito, che utilizza un supporto a livello gratuito, non utile. Ovviamente è molto utile per tutto quello che riguarda un sistema di trasfigurazione, ma l’introduzione di questi elementi non è mediata da una razionalità. In questo caso si tratta del contatto di quel rito con il mondo contemporaneo di un altro, con un’assimilazione immediata. Anche il gesto a volte funziona così e nel lavoro con i danzatori a me piace, più che insistere sulle loro capacità e le loro bravure, creare una dimensione di ricerca per ampliare un vocabolario attraverso dei segni di disagio.

Le Sacre - ph Rocco Casaluci
Le Sacre - ph Rocco Casaluci

L.O.: Sempre pensando alla Sagra e alla sua storia, c’è qualche esperienza, oltre a quelle da cui hai deciso di discostarti, che invece hai ammirato anche se ovviamente non hanno influenzato per nulla la tua lettura di questa coreografia?

V.S.: Oltre ovviamente quella di Nijinskij, potrei citare la versione di Pina Bausch perché esprime una potenza, un intento molto lucido per quanto riguarda la teoria del rito, ed emerge un bel dialogo con ciò che evoca il senso dell’interpretazione del danzatore contemporaneo. Sembra che quei danzatori siano stati preparati al rito di quella Sagra cercando di portare dentro di esso una loro personale esperienza. Vedi quei volti e come interpretano, c’è qualcosaltro, lì dentro. Stiamo parlando di una Sagra molto significativa anche se non la riconosco da un punto di vista coreografico.
Un’altra è quella di Xavier Le Roy che è una creazione completamente diversa. Lui semplicemente dirige un’orchestra immaginaria attuando un completo rovesciamento di senso e riuscendo quindi ad aprire quei sentieri nascosti dentro la Sagra che altrimenti non emergerebbero. Ti fa vedere il rito sotto una forma estremamente non concettuale ma molto vicina a come l’animale-uomo si sia “sofisticato” nel corso del tempo attraverso una gestualità altra. I gesti del direttore d’orchestra vanno a indicare a un’orchestra inesistente: è un bel punto di incontro fra il rito concreto e astrazione.
Nella mia coreografia il Preludio che aprirà lo spettacolo prima de La sagra della primavera è interpretato da sei donne nude che hanno fatto un lavoro molto vicino a un senso di “copia l’una dell’altra”, ricreando un movimento molto simile. Ma si tratta di un movimento che sommato all’altro va a creare la figura completa, un po’ come accade nelle fotografie di Muybridge . Corpi sempre molto adiacenti, messi in fila, in modo che in forma prospettica si possa notare l’evoluzione.
Tutto questo accade anche in Cena Pasolini: ho chiesto alle assistenti di riprodurre a Carpi una scena preparata a Bologna, perché quello che mi interessa è vedere come lo stesso movimento fatto da altri venga trasformato, in questo caso da 13 diversi interpreti. Dunque avremo due scene molto simili ma profondamente diverse nel modo di eseguirle. È un po’ quello che ho fatto nel Preludio con le donne. Hanno la stessa natura coreografica, ma divergono per piccolissime cose.

Cena Pasolini in prova - foto di Virgilio Sieni
Cena Pasolini in prova - foto di Virgilio Sieni


Alessandra Corsini: Ha appena citato un altro degli spettacoli compresi in questo progetto, Cena Pasolini, di cui ieri abbiamo assistito alle prove dei coristi a Carpi. Parlando con loro è spesso emerso il concetto di “semplicità”. In uno dei vostri incontri so che avete studiato il modo di comunicare, di spiegare un gesto e una delle coriste mi ha riportato una definizione da lei data, Sieni, che mi ha colpito molto: «un’enciclopedia di gesti dell’umanità scritti nel corpo da un tempo molto antico». In cosa consiste questa semplicità?

V.S.: Sono gesti che possono dare l’impressione della semplicità ma ci si rende subito conto della difficoltà del portare l’attenzione. È complicato ricreare un gesto quotidiano in una maniera consapevole, non si sa che ritmo dare, ad esempio. Questo vuol dire che dentro di noi non c’è solo il gesto acquisito quotidiano, quello che ci serve per stare al mondo: nel corpo è inscritta una dimensione epocale, e non posso che citare Alda Merini quando dice che in ciascuno di noi è riversata un’epoca, un’idea di archeologia che risale fino al primo uomo, insieme a un sistema neurale, articolare, muscolare che forma la nostra struttura. Tutte le memorie che il corpo racchiude vanno ben oltre quello che riusciamo a esprimere, però sono inscritte in noi e attraverso una serie di pratiche possiamo creare delle fessurazioni per dialogare con alcune di queste. Il medico che ti tocca in determinati punti, ad esempio, e ti fa scaturire un pianto, o un gesto fatto in una certa maniera che va a ricreare un ricordo o un pensiero. O anche tu che mi ascolti bene solo appoggiata in quella posizione: decodificheresti in maniera diversa stando in un’altra postura. Quindi nella semplicità del gesto c’è al contempo anche una grande complessità, ed è questa complessità che ci fa percorrere un viaggio a ritroso fino a riscoprire il senso dell’archeologia, dei canali di energia dentro il corpo e di come un gesto si associa a un altro.
Nel corso del tempo la danza si è andata ad affermare su un concetto legato a una dimensione di grazia che però è sbagliata, nel senso che è proprio la danza che ci dà un’opportunità per ampliare la nostra visione in modo da riuscire a superare i nostri elementi di decodificazione attuale.
La ricerca coreografica, del gesto, della danza è proprio questo: andare a smarginare oltre un codice prestabilito, oltre a dei meccanismi strutturati. E questa è la vera tragedia del danzatore! Un performer amatore è quasi sempre credibile perché imperfetto, perché con lui tutto va a coincidere in una “momentaneità”, facendo sì che il gesto si identifichi come credibile perché in quel momento appare in tutta la sua totalità. Al contrario, se chiedo a un danzatore professionista di legare due gesti egli avrà un rapporto con la memoria immediato perciò proietterà direttamente e rapidamente la memoria del gesto sul corpo, ma come renderlo credibile? Attraversare e ricreare il percorso di conoscenza del gesto con un danzatore è una pratica assai sofisticata. Ed è per rispondere a questa problematica che è nata nel 2007 l’Accademia dell’Arte del Gesto, un’esperienza che coinvolge molte e diverse persone alla pratica. Ed è anche la ragione per cui facciamo lavori come Cena Pasolini.
Penso sia necessario un approccio alla pratica, anche se molto minima come il portare l’attenzione su uno spostamento o un singolo movimento. Questa attenzione minuta causa immediatamente, nelle persone con cui lavoro, un altro atteggiamento nei confronti della visione del corpo: per esempio accade che partecipino allo spettacolo, dopo aver fatto un percorso di pratiche e di esperienze, con tutto un altro modo di porsi rispetto a quello iniziale. Si sono cioè creati una geografia personale di riferimenti, di punti di interesse e nel momento in cui osservano qualcosa, il giudizio e la modalità del guardare si sposta per concentrarsi esclusivamente su questa nuova mappa di attenzione e entrare in un dialogo di pensiero, spirituale, fisiologico con uno sguardo diverso e partecipativo, assolutamente non passivo. Personalmente assisto a delle vere e proprie resurrezioni, come è successo con una signora di 95 anni in un paesino nella campagna della Puglia che mi rivelò «ah, io ho sempre voluto fare la danza», un desiderio realizzatosi praticamente alla fine dei suoi giorni. Il bello è essere riusciti a immettere nel mondo una presenza che va a coincidere con un pensiero, tardi o presto che sia. Quello che a me interessa è proprio lo spirito di una persona che entra in questa dimensione di partecipazione. In questo caso la danza viene letta attraverso un esserci e un dialogare con quella che è stata un’aspettativa di una vita. E allora cos’è la danza? È quel territorio che può accogliere una dimensione di attesa, ed ecco diventare chiaro il senso del dono. La danza appare come un dono, questa donna è stata in attesa per tutta una vita e le è capitato, come dice lei, un miracolo: a un certo punto della sua vita, a 90 anni suonati, arriva un pazzo che decide di farle fare un lavoro coreografico a Marsiglia, a Venezia… Lo chiama miracolo ma ovviamente non lo è, sono andate a coincidere delle necessità. Era una persona molto presente alle prove di un lavoro che feci in Puglia, inizialmente solo come astante. E il suo modo di esserci e di osservare ha fatto sì che le nostre strade si incontrassero e la coinvolgessi.

Visitazione Taranto
Visitazione Taranto


Alice Murtas: Pensavo al film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo in cui all’inizio si sente una canzone: «Sometimes I feel like a motherless child, sometimes I feel like an almost gone» (a volte mi sento come un bimbo senza madre, a volte mi sento vicino alla morte) e mi è venuto in mente un possibile riferimento al lavoro svolto sopratutto con gli anziani. Si è parlato di disagio e di dolore nel lavoro di un danzatore, volevo capire se questo senso di fragilità che si trova a volte nei film di Pasolini sia presente anche nelle Cene.

V.S.: La danza più che essere dolore è tragica, ed è il motivo per cui dico che il danzatore è l’ultimo angelo esistente. È una sospensione, una capacità che ha la persona, spesso molto giovane, di trovare una forma di comunicazione col mondo. È sia sospensione che trasfigurazione, è un lavoro complesso e nella sua complessità c’è un’ascensione di gioia e di dolore.
Con Pasolini ci sono molte adiacenze, evidenti fin dal titolo che ho voluto usare, come la scelta degli interpreti. Il cast filmico di Pasolini non era composto solo da attori professionisti, ma da molti volti del popolo, abitanti di un mondo ancora agreste che stava rapidamente scomparendo negli anni Sessanta. Una dimensione legata a un senso di comunità, ritualità e vita vera. Similarmente nella scelta dei cast di queste ultime Cene non ci siamo affidati alla bravura ma esclusivamente alla disponibilità delle persone e ciò che emerge sono questi visi, una geografia di volti di non professionisti, non preparati ad essere esposti: volti meravigliosi perché imperfetti.
Si tratta presenze e corpi indispensabili per fare Cena Pasolini proprio perché esprimono questo senso di imperfezione, di fragilità, di debolezza, di “piega”. In scena, ingenuamente, si dirigono verso la cosa più opportunistica, o necessaria in quel momento, come ad esempio osservare l’altro per copiarlo e riuscire a ricordarsi la sequenza. Nell’immaginario comune il gesto eseguito dal danzatore è armonico e anche l’artista che va a lavorare sulla dislessia e sulla decostruzione del gesto riesce a legare questi aspetti attraverso un processo molto complesso di trasmissione e tecnica. L’amatore questo non può farlo, rimane legato alla sua “debolezza” e diventa un manifesto improvviso di un qualcosa di fragile che insieme esprime uno sforzo, e dona così un immaginario differente.
In poche parole l’amatore esce da se stesso, perché non fa più i suoi gesti quotidiani, ma impara un’azione coreografica che – a sua insaputa- parte esclusivamente dalle sue movenze. Quando io compongo con i non professionisti parto tacitamente e principalmente dalla loro postura per accedere a tutte le possibilità di movimento. Gli viene proposta una coreografia che paradossalmente nasce dalla loro natura fatta di piccole reazioni in risposta al mio tocco, che applico seguendo le loro linee e suscitando così piccoli spostamenti. Nasce quindi una struttura, che chiamo “azione coreografica”, che viene fissata, e il loro compito è quello di educarsi a questa struttura. Il fascino sta nel fatto che pur essendo un loro gesto, e quindi sono “abili” a farlo, non lo ricordano, si scontrano con la difficoltà della memoria. Si passa dalla dimensione neurologica, perché quel gesto gli appartiene, a quella mnemonica. Tutto questo lavoro, molto complesso, è sorretto sempre da una credibilità data dalle loro imperfezioni perché l’esecuzione non sarà mai precisa come avviene con la qualità di movimento di un danzatore professionista. Loro non hanno l’opportunità di ricadere nel gesto quotidiano perché devono sempre rimanere sospesi in questa dimensione di ri-creazione del gesto. E tutto questo lavoro va a infiltrarsi dentro una struttura importante dell’uomo che può essere di pensiero, di memorie, come gli odori che sono capaci di far scaturire gesti e pensieri, e viceversa.

L.O.: Stiamo parlando di persone anche di una certa età e quindi di corpi stratificati di memorie. Cosa accade invece quando ti trovi a lavorare con i bambini?



S.V.: Lavorare con i “primi” e gli “ultimi” o per meglio dire i “penultimi” ovviamente è una questione molto diversa. Con i più piccoli si entra in una dimensione quasi opposta, perché il bambino ha più memoria dell’adulto. Anch’io, nonostante pratichi il gesto quotidianamente, affronto tutto quello che è il passaggio della vita e quindi anche le dimenticanze. In quanto professionista sono bravo con la memoria, e allo stesso tempo sono abituato a un sistema di reazioni da parte dei danzatori. I bambini invece, nel momento in cui gli si danno dei movimenti – anche questi scaturiti da loro – anche sbagliandosi li ricordano tutti. Il bambino diventa fonte di memoria e quindi si possono lavorare dettagli diversi perché c’è un tempismo differente. Con i bambini c’è una dimensione più dinamica, al contrario mi interessa recuperare la lentezza con gli anziani. Questo perché fisiologicamente il bambino non è predisposto alla lentezza e quando è lento cade a terra: ha difficoltà a reggersi in piedi, non essendo preparato inizia a tremare e barcollare, e di questo bisogna tenerne conto, come del fatto che farli muovere lentamente per loro è una mezza tortura, magari risulta un bell’allenamento ma non si può forzare perché, in quella tenera età di educazione del corpo alla vita, non si è così preparati ad affrontare gli ostacoli ardui che risiedono nella lentezza. La lentezza va conquistata. Con loro studio la cura della dinamica e la cura del gesto: il bambino non è mai aggraziato ma risulta ancora dislessico, non ha una natura simmetrica, che nell’uomo per altro non esiste. La natura simmetrica è un apporto che noi diamo alla struttura, insieme a una serie di concetti come armonia, grazia etc.. Un esempio sta nella posa spesso torta che assumiamo mentre siamo concentrati o in ascolto, e nel momento in cui percepiamo lo sguardo degli altri cambiamo subito atteggiamento. Questo conferma che esiste una questione morale nel corpo data da un’educazione che cambia da cultura a cultura. Mettere in crisi questo sistema significa anche rendersi conto di abitare un mondo, uno spazio molto ampio rispetto alle nostre conoscenze.

Cerbiatti del nostro futuro

Cerbiatti del nostro futuro

Lorenza Paniccià: I bambini in questo caso – tranne una bimba – hanno tutti una base di danza accademica. Credo che ci sia una ulteriore difficoltà quando ci si relaziona con dei bambini-danzatori perché è presente quella pesante sovrastruttura dell’accademismo, talvolta quasi impossibile da superare. Per loro spesso è difficile ritrovare quel movimento naturale, quotidiano. Perciò come riuscire a trasmettergli un senso di consapevolezza del corpo?


V.S.: Il bambino, essendo naturalmente pronto ad apprendere, a portare alla memoria e quindi a tracciarsi, già dopo pochissimi incontri assimila certi stili, posture e sguardi come per similitudine. Rendiamoci conto che anche da adulti siamo predisposti in maniera totale alla copia dell’altro, l’uomo è un essere mimetico, e nella forma innocente dell’infanzia principalmente si copia per apprendere. È fondamentale però sapere “copiare bene” cioè riuscire a far sì che questo “copiare” non diverti patologico: bisogna tenere in considerazione che i bambini attivano una forte forma di affezione verso gli adulti, li osservano e li assorbono come un mito, un punto di riferimento. L’educazione che ci proponeva Rousseau, in campagna, in una dimensione totalmente diversa dall’oggi con più attenzione rispetto alla manualità del bambino che era chiamato a “fare pratica”, è una dimensione di educazione, seppure sorpassata, ben più ampia di quella odierna.
 Io credo che i bambini a una certa età debbano principalmente giocare, però è bello vedere come un bambino possa immediatamente immergersi con passione verso un’arte che gli piace in modo sincero, o anche per simulazione. Spesso infatti ciò che gli si propone piace proprio perché gli viene proposto, e mettendoli davanti a un altro tipo di danza probabilmente gli piacerebbe allo stesso modo.
Quello che a me interessa adesso è principalmente intromettermi nella loro struttura culturale: in varie città italiane facciamo delle audizioni pubbliche, scegliamo dei bambini e li portiamo verso un tipo di lavoro differente da quello fatto nelle loro scuole di danza. Conoscono così altre esperienze, altri maestri, e cerchiamo soprattutto di fare in modo che bambini di scuole diverse si incontrino, contro quindi quell’abitudine di clan e di chiusura che molto spesso vige nelle scuole stesse. Cerco a mio modo di infiltrarmi e far nascere delle situazioni creative in cui bambini si incontrino e si conoscano attraverso una qualità di movimento altra. Da qui poi possono scaturire esperienze più complesse, che però nascono come scelta esplicita di immergersi in un percorso diverso, come è accaduto con le bambine fiorentine, livornesi, pugliesi dove si va ad affrontare un discorso coreografico contemporaneo.
A me interessa un avvicinamento al lavoro inteso in senso più ampio, umanistico: portare i bambini a contatto con l’arte visiva del territorio, visitare le opere d’arte, spiegargliele. Si guarda l’opera, si torna in studio e la si ricrea con i corpi. Questo per esempio è accaduto a Firenze. O anche fare un discorso legato all’architettura, ai sostegni, utilizzando immagini che possano aprire delle visioni altre sulla pittura, sulla scultura o su un’idea di città. Mi interessa molto ampliare il concetto di pratica del bambino includendo questi elementi di studio, anche se purtroppo non sempre è così, per esempio per Cena Pasolini ho lavorato esclusivamente sul concetto di composizione.

L.O.: Mi sembra che sia questo tipo di sedimentazione e di adiacenza a una storia, a un passato e a una ricerca artistica che ha un incontro anche geografico con lo spazio che abita, che possa mettere al riparo da un’accusa di stravaganza o di strumentalità. Nel corso degli anni c’è stato un grande processo che ha incluso, attorno al teatro e a una stretta cerchia di professionisti, tutta una serie di figure altre, però talvolta questo genere di esperienze si presta a una facile strumentalizzazione.

V.S.: Sì, è stato molto cavalcato questo utilizzo, questa “messa in mostra” della diversità, per questo accentuo la quesione della debolezza e fragilità di alcune pratiche. Basti pensare che questo lavoro, per quanto mi riguarda, nasce per sensibilizzare il danzatore professionista. Spesso mi sono trovato insoddisfatto della sensibilità del danzatore, e allora ho iniziato a proporre pratiche con i bambini e i non vedenti proprio per far sviluppare nel danzatore una conoscenza altra sulla figura: nel momento in cui incontra, impatta con l’altro il danzatore deve essere immediatamente in grado di riconoscerlo nella sua struttura, fisiologia e nervatura. Deve sapere come muoverlo e come curarlo. Quindi è un lavoro che è nato principalmente per accrescere le qualità tecniche dei miei danzatori, ma ha rapidamente fatto scaturire percorsi coreografici anche per queste persone non professioniste, tenendo conto che le persone, quando si presentano per collaborare con noi, non lo fanno semplicemente per mostrare quello che sono ma come frutto di un percorso abbastanza lungo di avvicinamento alla pratica. Quello che deve emergere non è la stravaganza legata alla loro diversità ma il senso di energia di una comunità.
In scena i non professionisti, anche i bambini, non sono mai soli ma insieme a altri: che sia la forma dialogica del duetto, o più spesso un quartetto, si presentano sempre in una forma che hanno precedentemente condiviso. Si tratta un’esperienza che a me interessa fare prima di arrivare alla presentazione di un lavoro.
In Cena Pasolini, essendo mancata, come accennavo prima, una fase umanistica di percorso e preparazione, si accentuerà l’idea di popolo. Si tratterà di cinque Cene d’insieme, per circa 65 persone, quindi 13 interpreti ciascuna, con un coro adiacente. Ciò che mi interessa sarà il vero percorso che si attuerà lì, nel momento in cui saremo a Palazzo Re Enzo, quando tutti si vedranno e inizieranno una serie di verifiche e confronto con gli altri. Rivedranno tutto il lavoro che hanno vissuto individualmente, con il proprio gruppo, legarsi con il lavoro dell’altro: coglieranno quanto è simile, o si domanderanno il perché. Dunque il momento della rappresentazione e delle ultime prove diventa cruciale.
Nel lavoro dell’Accademia tutto è pensato in questa maniera, persino il preparare materiale fotografico. Quando viene il fotografo, naturalmente scelto ad hoc, in genere preparo il set come una pratica coreografica: il set fotografico diventa quindi un’opportunità di apprendimento e il momento in cui il bambino è chiamato a fare la posa diventa occasione di studio coreografico. Questo aiuta il bambino a capire che nel momento in cui si è fermato per mostrarsi, il suo corpo ha già assimilato qualcosa. Quando si arriverà alla coreografia dinamica questo qualcosa tornerà nell’attraversamento di quel gesto. I bambini imparano così un loro modo di punteggiare, contrappuntare il corpo secondo delle intensità e delle attenzioni. Tramite la fotografia si possono scoprire dei gesti che altrimenti sfuggirebbero nella dinamica: l’immagine fotografata è allo stesso tempo un gesto sospeso e un gesto a sè che fa parte di qualcosa di molto più complesso e articolato.

foto realizzata da Virgilio Sieni durante la prova generale
foto realizzata da Virgilio Sieni durante la prova generale

L.O. Spesso ti abbiamo sentito parlare del concetto di democrazia del corpo, perché è vero che nel mondo dei nostri gesti tutto è legato a un piccolo dettaglio che diviene più importante di un’altra estensione magari più massiccia. Esiste questa democrazia interna ma è anche vero che internamente c’è un tiranno: nel danzatore può essere la sua idea di performatività, l’autocorrezione che continuamente interviene, mentre nell’amatore possono essere la vergogna, il disagio o la paura di esporsi a tiranneggiarlo. Perché allora parlare di democrazia e non di liberazione?

V.S.: Anch’io sono più vicino al senso di liberazione che di democrazia, ma quando mi riferisco al corpo intendo una muscolatura che ha bisogno di “farsi amici” tutti i piccoli dettagli che subiscono troppo le “grandi forze”. Sono queste misure infinitesimali a sorreggere le grandi masse muscolari, i grandi movimenti che per contro sono i primi ad ammalarsi. Quindi il mio concetto di democrazia del corpo è usato principalmente per evidenziare qualcosa di quasi inesistente, difficile da sostenere nella democrazia: i dettagli, le cose marginali, ciò che non appare.
Quello che si intende oggi per democrazia è una cosa estremamente stravagante: l’audience. Un riconoscimento populista, fallace, di un percorso. Invece in una forma di lealtà con se stessi, e quindi il corpo come metafora del mondo, immagino una città che inizi a osservare con rispetto e attenzione le tracce che l’uomo vi ha sedimentato. Certo oggi c’è da vergognarsi, se penso a come vengono trattate alcune città storiche italiane, per la mancanza di attenzione: vige l’assenza di una vita legata allo scambio di opinioni al fine di far accrescere un sistema di visioni. Al contrario immagino nascere luoghi dove non ci sia da comprare niente, dove sia possibile camminare per strada – e qui il concetto di democrazia del corpo si rovescia nella città – senza acquistare niente. Ho l’immagine di una città vuota, perché ora le città si stanno spogliando degli elementi che legavano un uomo a un altro in una vita in comune: il teatro, il cinema, la piazza, il giardino con le panchine… Penso che con la scusa del sacrosanto lavoro si vada a giustificare una serie di infrastrutture incapaci di creare incontri, fino ad arrivare al paradosso della centrale nucleare impiantata “perché necessaria alla comunità”, perché dà lavoro a migliaia di persone, senza contare che ne mette a rischio la vita. Per questo dico che è mancata l’attenzione e c’è stato un completo ribaltamento del concetto di democrazia del corpo nell’idea di città per come queste si stanno trasformando. Un po’ come avviene in un corpo infetto a causa di un male, come una patologia dovuta a un appoggio repentino sulla gamba destra – faccio un esempio – che diventa una cronicità strutturale che poi bisogna operare, curare. Sono dettagli che mi piace portare come metafora dell’abitare il mondo.
Come accennavo precedentemente in merito ai signori e signore che hanno fatto pratiche di un certo tipo, credo che il fatto di essere consapevoli di stare in un corpo, e quindi di frequentarlo attraverso uno spostamento dell’attenzione verso un qualcosa di altro, può creare una fessurazione interessante. Del resto quando faccio alcuni percorsi mi domando, specialmente con i bambini, come cresceranno e chi diverranno, ho la speranza che tutto questo possa servigli per trasformarli almeno in quell’attimo.
Pensa all’affezione che puoi avere avuto per un’opera d’arte, o per un oggetto che improvvisamente rivedi dopo quarant’anni, dopo che sei diventato qualcun altro. È un oggetto che hai toccato, vissuto o praticato anche solo col pensiero: c’è sicuramente un legame e una risonanza profonda. Si può applicare questo ragionamento anche nei confronti di una pratica che hai condotto, come visitare un’opera in un museo e rivederla nel corso del tempo, magari dopo trent’anni. Scherzando mi capita di dire che alcuni dipinti sono i miei veri amici, perché è l’impressione che ho, non considerandoli più come un qualcosa che è fuori da me, nel caso dei quadri, ma come un qualcosa che col tempo ho incluso e compartecipa alla mia esperienza dello stare al mondo. Intendo anche questo quando parlo di polis. Anche un piccolo gesto diffuso in tutta la comunità può aiutare a sostenere una presenza.

Virgilio Sieni – Agorà tutti, Venezia 2013
Virgilio Sieni – Agorà tutti, Venezia 2013

L.O.: Cosa dovrebbe o potrebbe fare una politica culturale per intervenire su questa maniera patologica di abitare il mondo al fine di rendere possibili queste anche minime aperture?

V.S.: Sicuramente dovrebbe mettere in chiaro quella che è una geografia di luoghi da preservare, ma senza chiuderli o destinandoli definitivamente solo a certi soggetti. Bisognerebbe dare molta fiducia al sistema dell’età dell’uomo, e quindi quelli che sono i “primi” e i “penultimi”, per creare una serie di opportunità di esperienza in modo che tutte queste cose possano ritornare alla comunità. Tutto ciò va a scaturire in un gusto e in un modo di acquistare, anche.
Del resto se le persone vengono abbandonate totalmente è anche perché c’è stato un travaso eccessivamente traumatico, un passaggio da una vita prima legata a uno scambio fuori dall’uscio, poi legata ai centri di aggregazione, poi la scomparsa di tutto questo: ora la gente si parla negli ipermercati. C’è stata una distruzione totale di tutto quello che era un’aggregazione importante. Gli anziani devono invece essere coinvolti proprio perché con la loro esperienza, ma anche la loro presenza come umanità fragile e debole, sono un manifesto dello stare al mondo.
Quando feci l’esperienza, che ripetiamo anche qui, con i partigiani a Firenze ho fatto incontrare ultranovantenni e bambini intorno ai dieci anni, curiosi di capire cosa è accaduto in un’epoca che non possiamo più immaginare poiché non ci appartiene. Bambini e partigiani vivono in un tempo spostato e la sostanza del progetto sta nel fatto che si sono osservati e si sono toccati: si sono scambiati un qualcosa, umanamente parlando, che è indicibile. Un bambino che adesso ha otto anni, tra ottant’anni potrà dire ho abbracciato un partigiano, quando questo sarà un essere mitologico un po’ come oggi Ulisse. Osservarsi, tastare con mano, scambiarsi un sorriso in una dimensione pratica e dialogica, è un’esperienza che rimane e segna perché non è qualcosa di en passant, ma è fuori da un processo di produzione. Uno scambio che ci doniamo in una forma totalmente gratuita è una sospensione ed è quindi utile.
In una città dovrebbe accadere tutto questo, perché deve essere la città a fornirci le ali per poter volare, altrimenti non è riconoscibile come tale. Non far stare il cittadino dentro le mura, ma farlo volare oltre la città stessa in modo da diventare così quel porto, quell’opportunità e accentramento di energie dove sia possibile sperimentare tutto quello che è necessario per affrontare il futuro.

 
a cura di Lucia Oliva
in collaborazione con Alice Murtas
 

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