Fabio Sajiz è uno dei più importanti light designer della scena italiana. Da compagnie affermate ad artisti emergenti, passando per festival e rassegne, scopriamo la sua “mano” in numerosi contesti: da Romeo Castellucci e Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio al Teatro dell’Elfo, da Anagoor alla compagnia Metteo Levaggi. Recente è la collaborazione con gruppo nanou (per la trilogia Motel) e di più lungo corso quella con la compagnia Virgilio Sieni, oggetto specifico della presente conversazione. Sajiz ha collaborato anche con i più rilevanti festival della scena teatrale e di danza in qualità di direttore e coordinatore tecnico (Drodesera e Santarcangelo, fra gli altri).
Lo abbiamo sentito in occasione del debutto di Le Sacre di Virgilio Sieni, opera bifronte composta da un Preludio che possedeva la densità visiva del sogno e da La Sagra della Primavera, dodici corpi in piena luce sui quali si addensava un apparentemente “invisibile” riverbero. Il dialogo, trascritto in forma di discorso dell’intervistato, si arricchisce di un dono che Sajiz stesso ha fatto a noi e ai lettori del blog: una serie di fotografie originali, prevalentemente non teatrali, che pubblichiamo come un ipotetico dialogo con le parole scritte. (Lorenzo Donati)
Cimitero Acattolico Roma
Gli inizi, la vocazione
Ho iniziato ormai tantissimo tempo fa, il primo approccio è stato quello del ragazzo universitario che va a teatro con l’abbonamento, da subito però coltivando una certa inquietudine. Avevo bisogno di sentire gli scricchiolii di un palcoscenico all’italiana e ho iniziato a guardarmi attorno, in cerca di “un volume”, di uno spazio scenico. Sono partito all’avventura, ho chiamato un numero di telefono di una ditta di trasporti teatrali che parcheggiava i bilici nel paesino dove abitavo. Avevo bisogno di lavorare. Così ho cominciato la mia prima esperienza nei teatri di prosa, inizialmente come facchino, ma al termine dei turni di carico e scarico cercavo di aiutare gli elettricisti, che però mi insultavano, non volevano che stessi con loro, mi dicevano di andarmi a riposare! Qualcosa mi attirava verso lo spazio scenico, avevo delle suggestioni visive provenienti da spettacoli a cui avevo assistito, come il Barbablù dei fratelli Lievi visto al CSS di Udine, quando Cesare Lievi lavorava con suo fratello Daniele, scenografo, un genio. Barbablù (luci di Gigi Saccomandi), una macchina tecnica “pazzesca” che mi ha dato molti input. Dunque il mio corpo, il mio cuore, lo stomaco e il cervello mi convinsero di dover stare in un teatro a osservare la scena da tutte le angolature possibili.
Dal punto di vista tecnico ogni teatro è diverso, i teatri sono dei polmoni che respirano con volumi diversi, pensiamo all’altezza del palco, al punto di vista della platea… e ovviamente allo staff tecnico, sempre differente di città in città. Si tratta di mettersi nella giusta relazione anche con le persone del luogo e con i loro metodi, sapendo che sarà necessario ogni volta ripartire dalle basi. Al centro resta sempre l’artista e il suo lavoro, del quale siamo chiamati a rispondere. Prima di tutto devo creare le condizioni migliori affinché attori e danzatori vadano in scena e il pubblico possa assistere, in un secondo momento subentrano domande più personali, legate al mio specifico percorso e punto di vista nel teatro.
Mantova
CampoSanto Pisa
La luce fra autorialità e “servizio”
Penso che il mio lavoro debba essere accompagnato in un silenzio, sia metaforico che materiale. Mi piace molto lavorare all’estero (Regno Unito, Germania, Giappone), dove c’è una forma ancora diversa di rispetto per il lavoro altrui. Ho sempre creduto che il mio apporto potesse essere importante laddove fosse in grado di accompagnare qualcosa facendo emergere “altro”. Come quando si legge un romanzo: racconta qualcosa, ma sta anche alludendo a qualcos’altro. Con la luce occorre sostenere, dare forza a una drammaturgia, a una regia o a una coreografia, è necessario fare affiorare uno sviluppo di lavoro sulle luci perché in grado di accompagnare una necessità drammaturgica. Non ho mai pensato che le luci possano essere protagoniste nel loro modo di rendersi “visibili”… le luci devono essere invisibili e accarezzare più soggetti secondari per far affiorare corpi nella loro penombra, corpi nella loro parte oscura. Così descriverei il passaggio della luce sul palcoscenico.
Carrara
S.#08 Tragedia Endogonidia Socìetas Raffaello Sanzio
Le relazione con artisti diversi
Ciascuno degli artisti con quali ho lavorato ha un rapporto con la vita e con la morte molto diverso, questo è il mio modo di filtrare la loro natura e le diverse esigenze.
Con Virgilio Sieni ho iniziato a lavorare molto presto, subito dopo gli inizi con la Socìetas Raffaello Sanzio in occasione di Giulio Cesare (1998). Con Sieni lavorammo insieme per La casina dei biscotti (2000), e abbiamo ricominciato a collaborare da circa un anno a questa parte. Virgilio Sieni vive CanGo, il suo spazio a Firenze, in modo “ossessivo”. A lui piace stare rintanato nel suo luogo e avere vicino pochi amici o collaboratori intimi, si chiude a provare con i danzatori per molto tempo, lontano dallo sguardo degli altri. Anche per questo motivo, se dovessi descrivere il suo rapporto con la luce prima di tutto direi che si tratta di un rapporto “naturale”, cioè che riguarda l’ambiente del suo lavoro: luci di servizio e luci del giorno che entrano dalle finestre. Una luce naturale che compie un ciclo. Uno spirito di osservazione che si fa molto acuto per tentare di cogliere più sfumature possibili. Virgilio mi ha spesso “accompagnato” in un’osservazione di come cambia la luce durante il corso della giornata, e come questa luce bagni i corpi. Ho avvertito la sua irrequietezza, il suo bisogno di capire se io stessi vedendo quello che stava osservando lui. Ci sono momenti in cui gli artisti sembrano domandarsi: «Starò contemplando tutte le possibilità»? È una questione che spesso non affiora in maniera diretta, e che richiede molto ascolto.
La qualità di luce ricercata da Virgilio Sieni può essere “mattutina”, legata a un preludio, oppure “crepuscolare”, quando in pochi minuti verso sera la luce si abbassa. In quel momento, Sieni richiama la mia attenzione: «Ecco, questa luce qui, è il momento giusto, è il tipo di luce giusto». La sua è una sensibilità legata allo scorrere del tempo, processo che spesso tentiamo di ricreare nello spazio scenico, cosa non facile perché CanGo vive di una sua natura tra muri bianchi, luce naturale e luci di servizio. Un’identità molto precisa e assolutamente difficile da riproporre, CanGo non è un luogo teatrale classico dove si sprofonda in un contenitore nero. Se potesse, credo che Sieni farebbe tutti i debutti nel suo spazio, perché il processo creativo passa attraverso la natura di quel luogo che rappresenta un elemento di equilibrio «…niente fari, niente colori, niente effetti. Una luce semplice»… che non lascia appigli.
Cesura
Ho Chi Minh City
Le luci di Dolce Vita fra profondità dello spazio e “vicinanza” ai corpi
Per Dolce Vita Virgilio ha avuto bisogno di “sfondare” completamente lo spazio, di aprirlo senza circondarlo da una classica inquadratura. Voleva entrare in relazione con le pareti, con il muro di fondo, come a volere “dichiarare” lo spazio. Oltre a questo, la sua necessità era avere una luce con delle piccole variazioni in crescendo, una luce in grado di accompagnare uno sguardo pulito e chiaro sui corpi. La musica eseguita dal vivo da Daniele Roccato mostra anch’essa una dinamica che cresce, dunque le luci non potevano “tornare indietro”, abbiamo così creato una “bolla di luce” morbida che potesse conquistare il palcoscenico sfumando ai lati con un leggero movimento interno in grado di sostenere l’evoluzione del lavoro. In tale dinamica generale, ci sono tuttavia alcuni momenti in cui lo spazio viene ritagliato, come la scena in cui si srotola il tappeto bianco, un rimando alle prove di CanGo, quando Sieni aveva posizionato un tappeto sotto la luce della finestra che bagnava il pavimento. Quindi non una luce che potesse colmare l’energia, la tensione, l’immagine della luce delle finestre di CanGo, ma una luce con una storia diversa, di un’altra natura, con una sua dignità che potesse raccontare anche un’altra storia ma con la stessa sensibilità e frequenza rispetto al ricordo di “quella” luce colta a CanGo.
Hebron
G8 Genova
La ricerca di Fabio Sajiz, dopo anni di lavoro
Cerco una condizione iniziale di buio assoluto. Dopo avere pagato un biglietto, entriamo in un luogo e le luci si abbassano. Inizia uno sprofondamento, e da lì parte tutto. Cerco, sia a livello concreto che metaforico, un buio totale che sia in grado di provocare uno sprofondamento. Un buio “veramente buio”. Secondo me è una condizione fondamentale: il pubblico si siede, si abbassano le luci di sala e “cominciamo” da un buio denso, un buio senza appigli e punti di riferimento perché è da lì che dobbiamo ancora una volta partire e iniziare ad ascoltare.
Alla ricerca di un buio perfetto per vedere ancora. Quel buio che ricordo da bambino, quando mi chiudevano la porta della stanza e tentavo di vincere la paura eliminando quel tenue filo di luce al quale mi aggrappavo. No. Dobbiamo sprofondare nel buio, per poi vedere cosa succede.
Oltre a questo, posso dire che nel corso degli anni il mio lavoro sia cresciuto in autonomia: ho iniziato a fare delle foto restando solo nel backstage oppure la sera durante le prove. Il mio processo artistico individuale sta nel tentativo di mostrare un mio punto di vista sul lavoro, che solitamente metto a disposizione degli artisti con i quali collaboro.
Infine, credo che il mio sguardo nel tempo abbia iniziato a interessarsi alla penombra, soprattutto quando ci sono oggetti collocati sulla scena. Vado in cerca delle ombre, per capire dove “vanno a finire”, mi interessa la “parte oscura”, sia della luce che dell’identità. La luce mi interessa perché posso tentare di vedere la parte che rimane nella penombra. Quella parte non raccontata che sembra accarezzata dalla luce attraverso un eco lontano… nel suo rimando, nel suo riverbero trovo sollievo e mi commuovo. La trilogia Motel di gruppo nanou, per esempio, da questo punto di vista è stata un cerchio che si è chiuso: dalla prima all’ultima stanza si vede questa progressione della luce dal primo piano alla penombra. Una drammaturgia completa della (non) luce.
Cimitero Staglieno
Madrid
Bn.#05 Tragedia Endogonidia Socìetas Raffaello Sanzio
Bn.#05_2 Tragedia Endogonidia, Socìetas Raffaello Sanzio
Il metodo delle fotografie
Il metodo delle fotografie è nato con Romeo Castellucci, quando eravamo in produzione al Comandini per Giulio Cesare, ed è poi proseguito per Genesi e poi con la Tragedia Endogonidia. Eravamo in cerca di un canale veloce di comunicazione, così ho iniziato a “farmi i miei viaggi” dopo le prove, la notte, accendendo le luci, scattando fotografie da diverse angolazioni: il mio percorso artistico come ricerca di un punto di vista. Alla ricerca di equilibri nelle inquadrature con sbilanciamenti di zone di luce e ombre all’interno dello stesso frame. Stampai il materiale e Romeo, che è curiosissimo, prese le foto e iniziò a fare delle considerazioni. Semplicemente prendevo atto che sceglieva del materiale e questa scelta mi spostava a condurre una ricerca sulla luce in relazione all’immaginario che aveva scelto dalle foto. Io guardavo le sue reazioni e mi accorgevo che in quel materiale c’erano informazioni utili per la creazione. Le fotografie sono un materiale di lavoro interno che utilizzo per studiare il percorso, ma gradualmente sono divenute uno strumento per verificare le risonanze tra il mio sguardo e quello degli artisti. Servono per precisare direzioni generali e particolari, come gradazioni, temperature, intensità, frequenze.
L.#09-1 Tragedia Endogonidia, Socìetas Raffaello Sanzio
Three Songs di M. Levaggi, 2007, Zagreb
Genesi I atto, Socìetas Raffaello Sanzio
Genesi II atto, Socìetas Raffaello Sanzio
Genesi III atto Socìetas Raffaello Sanzio