Silvia Costa è regista e performer. I suoi lavori sono stati presentati in alcuni dei principali festival italiani e internazionali. Dal 2012, in seguito a una commissione da parte del festival UovoKids di Milano, è iniziato anche un percorso di creazione di lavori installativo-performativi dedicati all’infanzia. Dal 2006 lavora come attrice con la compagnia Societas Raffaello Sanzio e come collaboratrice artistica nelle produzioni teatrali e operistiche del regista Romeo Castellucci.
Questo dialogo fa parte del progetto Conversazioni scritte a cura di Lorenzo Donati, in collaborazione con Gabriele Drago e Jessica Imolesi, realizzato al festival Crisalide 2015.
Silvia Costa, A sangue freddo (ph Silvia Boschiero)
Ci racconti la genesi di A sangue freddo?
All’origine dello spettacolo c’è un set fotografico, una serie di scatti che la fotografa Silvia Boschiero ha realizzato e che ritraggono il mio corpo coperto di stampe anatomiche. Queste immagini sono state pensate ad hoc per un progetto editoriale insieme ad Ane Lan e Orthographe. Quest’anno al festival Uovo si è creato lo spazio e il contesto per esporre autonomamente questi scatti sotto forma di mostra e Umberto Angelini, direttore di Uovo, mi chiese di sostenere la parte espositiva con un atto performativo. Già lavorando sul set, avevo messo in atto una sorta di performance che mi permettesse di trovare le pose del corpo in relazione alla carta e ai disegni anatomici lì rappresentati. Così ho cominciato a entrare in una dinamica compositiva di gesti, come mi accade quando penso a un lavoro sul movimento. Sono partita dalla carta, dalla materia, non dal movimento in sé, e in un secondo momento è arrivata anche l’idea dello spazio.
Ho realizzato una sorta di cassapanca che contiene precisamente il mio corpo e che volevo desse un’idea di compressione. Poi ho sdoppiato la mia figura. Ho messo un altro corpo ad agire su un livello superiore, sopra di me che invece stavo fissa, immobile, costretta. La relazione tra questi due corpi riusciva ad aggiungere, oltre all’idea dello strato, anche un’idea di misura, un metro fisso per misurare le posture del corpo. La condizione spaziale dello stare sopra o sotto si lega al tempo del corpo sulla scena. Il corpo che ho scelto affianco al mio è quello di Laura Pante, che è un corpo molto simile al mio ma leggermente più piccolo: questo décalage tra noi è servito come espediente grafico e pretesto per creare le forme che ci uniscono.
In che modo l’immaginazione dello spazio ha dialogato con la creazione dei movimenti?
Io ho un problema con la libertà. Per cercare un movimento, per pensarlo necessario, ho bisogno di comprendere i limiti che mi accoglieranno, devo sapere dove mi trovo, come appare lo spazio che mi circonda. Devo ridurre la mia libertà. Penso che il movimento debba essere funzionale all’immagine che voglio creare ed esso assume un peso, genera un contenuto, solo in relazione al luogo. Avendo una formazione più legata all’immagine sono abituata a partire da una forma bidimensionale, che solo successivamente acquisisce la tridimensionalità dei corpi. Lavoro spesso con il gesto ma non mi considero una coreografa. Direi che il movimento nel mio lavoro svolge più una funzione geometrica, traccia le traiettorie, le linee di fuga.
Silvia Costa, A sangue freddo (ph Silvia Boschiero)
In A sangue freddo aleggiano umori fantascientifici, relativi al doppio, al clone, alla copia sintetica.
La performance comincia con due corpi, uno addormentato e l’altro in movimento. Successivamente si passa a una fase di risveglio, di attività vitale, poi a una fase di fusione, di syncrono, per infine giungere a una sostituzione. Il movimento in questo caso si svolge secondo un andamento sinusoidale, nel quale i due corpi partono da punti opposti intersecandosi e allontanandosi continuamente. Con questi scambi di posizione si entra all’interno di un ciclo che potrebbe andare avanti all’infinito. L’idea del doppio è una strategia per dare una misura al corpo e sviluppare un lavoro sullo strato, sulla pelle. Il due è questione epidermica: due strati, un interno e un esterno. Lo spazio che separa me e Laura, la differenza che c’è tra i nostri corpi è un dato importantissimo a livello compositivo, dal momento che lavoriamo su piccole sovrapposizioni e spostamenti. Il clone non è il mio orizzonte tematico di lavoro, ma si tratta in effetti di un processo di decodifica dei segni che resta aperto. Mi piace scoprire rimandi e visioni inaspettati attraverso gli sguardi esterni.
Ho cercato il più possibile la sintesi durante la ricerca: non c’è niente di decorativo nel lavoro, semmai il tentativo estremo di far corrispondere forma e contenuto. Forse è una posizione troppo rigida, ma la rigidità mi appartiene. A volte viene scambiata per pretenziosità e non viene del tutto compresa. La sfida, allora, è essere dichiaratamente pretenziosi rispetto a ciò che si fa, ma intendendolo nella sua accezione positiva.
Silvia Costa, A sangue freddo (ph Silvia Boschiero)
Il tuo lavoro precedente, Quello che di più grande l’uomo ha realizzato sulla terra, metteva in campo una dimensione sabotata del quotidiano, come se volessi sfondare l’immagine partendo da un’ordinarietà.
Quel lavoro nasce da un bisogno di svolta e forse anche di rivolta verso me stessa.
Sentivo l’esigenza di un cambiamento nel mio percorso. E così ho deciso di entrare nell’agone di Premio Scenario, ho deciso di mettermi alla prova, gareggiare. Lo spettacolo è nato come risposta a un vuoto che avvertivo rispetto alle possibilità del gesto. Non riuscivo più a partire soltanto da uno spazio o da un gesto, sentivo che non mi era più sufficiente, ero in cerca di maggiore concretezza.
Così ho pensato di abbattere la dimensione del gesto pur continuando a curarlo minuziosamente, aprendomi al contempo alla costruzione di un contenuto più narrativo. In scena ci sono quattro personaggi, sempre di spalle, inscritti in uno spazio che converge al centro. Sono in preda a un dramma di cui non si capisce l’origine e la direzione. Parlano per frasi fatte, luoghi comuni, grandi temi della vita. Usano parole che ciascuno di noi si è ritrovato a dire almeno una volta. Sono umani.
Ho scritto i testi durante tutto un anno, in maniera non cronologica ma per quadri separati. A volte e inaspettatamente riuscivo a sentire e a immaginare i dialoghi tra questi personaggi.
A partire dai testi ho costruito poi le traiettorie, pensati gli elementi scenici, i gesti, e soprattutto la composizione drammaturgica dei quadri. Credo che una fonte d’ispirazione sia stata la lettura di alcuni racconti di Raymond Carver, la condizione umana che vi viene descritta. Come in un romanzo, dove leggendo non riesco a visualizzare i lineamenti precisi dei visi dei personaggi, dove il mio punto di vista non è frontale, ma sempre un po’ di spalle, anche qui ho assunto questo punto di vista sfasato, e mutevole. Non definitivo.
Silvia Costa, Quello che di più grande l'uomo ha realizzato sulla terra (ph Matteo de Mayda)
Presentando il tuo percorso parli di affezione all’immagine. Ce ne parli?
Una persona che ha un’affezione all’immagine ne è innamorata, ma anche infettata. È una forma di amore che si misura con la dedizione necessaria per evocarla, alla grande quantità di tempo che si passa insieme a questa. Rispetto agli anni in cui ci troviamo, si tratta di maneggiare diversamente il il tempo. Siamo immersi in un flusso di immagini, ma alle persone che vengono a teatro chiedo di fermarsi e di non farsi più toccare più da altre immagini. Cerco di epurare e selezionare per arrivare all’essenza. Spesso è un percorso gioioso ma, come in un amore, affianco al lato che ti dà molto c’è un altro che ti fa soffrire enormemente. Vivo questa affezione come una sorta di impotenza davanti a quello che c’è di fronte a noi.
Sento di essere su un altro piano rispetto a ciò che è imposto, non sono toccata da molte delle immagini che pensiamo essere contemporanee. Mi sento lontana da una dimensione pop che non mi appartiene e che non riesco a farmi appartenere, per quanto ne sia circondata. Allo stesso tempo, però, avverto la necessità di farmi coinvolgere, vivo in questa epoca e devo cercare di intercettarne gli aspetti più diffusi. La continua accelerazione alla quale siamo sottoposti, anche nella fruizione delle immagini, svuota completamente il valore di ciò che vediamo. Anche dal momento che lavoro su spazio e movimento, ovvero su una dimensione estetica, probabilmente ho avvertito l’esigenza di dare forma a una dimensione più narrativa, le immagini da sole non mi erano più sufficienti.
Resta comunque un’affezione all’immagine che riguarda l’estetica, l’armonia, la geometria e la simmetria, un’affezione che inerisce alle regole essenziali della composizione. Penso che se un’immagine possiede una sua potenza, questa riesca a emergere anche dentro al brusio generale. Quando questo accade, allora ci si ferma. Forse oggi è un processo più difficile che in passato, forse questo accadimento non dipende solo dalla “bellezza” ma molto anche da una rottura di schemi che permette di vedere la realtà in modo leggermente spostato rispetto al suo asse. Si tratta di fermarsi, di stare attenti, di essere curiosi. Siamo sempre sollecitati e la nostra attenzione è come narcotizzata, per questo si rischia di non essere più sconvolti. Ho molta paura quando vedo i ragazzi chini sui loro schermi, perché temo che si stia perdendo la capacità di stare in solitudine o semplicemente di guardarsi intorno. Non si vive più l’attesa cosicché mancano quei vuoti, quella noia, dai quali provengono le idee e le immagini.
Consapevole di porre una questione estremamente complessa, ti chiedo: come produrre immagini differenti?
Non so come si faccia a trovare le immagini veramente potenti e in grado di differenziarsi dal flusso. C’è qualcosa di legato all’istinto e che non si può spiegare o insegnare. Penso ci debba essere un atteggiamento di attenzione costante che una persona o un artista deve assumere rispetto a quello che gli passa intorno. Ciò che io scelgo di investigare parte sempre da un desiderio.
Penso a quello che mi piacerebbe vedere stando seduta in platea. Mi metto nei panni di chi guarda. Non credo di riuscirci sempre, o forse quasi mai, ma il punto di partenza è questo. Come spettatrice mi immedesimo in quello che vedo; avverto una forza empatica in atto fra me e i corpi sulla scena. Oltre a ciò, mi interessa sempre capire cosa propone l’arte oggi. Bisogna esserne al corrente, non sono tanto naïve da credere di poter essere disturbata da altri stimoli. Al contrario, credo che sia doveroso sapere quale sia lo stato dell’arte.
Come fare, rispetto alla domanda di partenza? È una sfida continua tra amore, odio e sofferenza, e tante volte mi sento impotente. Non so quale sia il punto di arrivo, non si arriva mai all’immagine definitiva, si vive una continua insoddisfazione che spinge a cercare altro, a proseguire.
Per rispondere, quindi, sto descrivendo una condizione.
Mi interessa molto il nodo della rigidità che evocavi, e vorrei che lo approfondissi, per concludere.
La rigidità è un modo di dedicarsi alle cose. A volte si pensa che il lavoro artistico possa essere fatto sempre, in qualunque condizione, ma per me non è così. Una differenza alla quale voglio dedicarmi riguarda il rigore, la pulizia estrema, non lasciare nulla al caso. Tutto è controllato e l’immagine che propongo non è mai facile. Non voglio coinvolgere le persone grazie a un vitalismo o sfruttando la presenza di musiche empatiche. È ancora una volta una questione di attenzione, e so di chiedere molto, forse andando in controtendenza rispetto a modalità più diffuse.
Cerco qualcosa che si irrigidisca, che si condensi in una forma marmorea; freddezza di superficie, che nasconde un interno incandescente, intoccabile. Voglio costruire una parete rigida e solida contro cui far scontrare violentemente gli spettatori.
Intervista realizzata in collaborazione con Gabriele Drago e Jessica Imolesi, pubblicata il 20 gennaio 2016