La conversazione che segue fa parte del progetto Dialoghi con gli artisti, condotto da Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi durante Crisalide 2016. Abbiamo incontrato Lorenzo Bazzocchi qualche giorno prima dell'inizio del festival chiedendogli un'introduzione ai temi di Crisalide.
Perché passi un po' di caos libero e ventoso, dice Crisalide 2016
L’immagine viene da Caos in Poetry di David Herbert Lawrence. In Che cos’è la filosofia? Deleuze e Guattari la usano per affondare il tiro sulla necessità da parte dell’uomo di proteggersi dal caos, da un caos che turba la norma, costruendo un firmamento di regole che permettano di vivere nell’illusione della certezza, della consistenza. Lawrence afferma che è il poeta a crearvi una breccia, uno squarcio attraverso il quale una ventata di fresco caos possa risvegliarci e porgere una nuova visione. L’uomo sembra temere questo «caos libero e ventoso» che può a volte arrivare a toccarne e stravolgerne la vita.
La necessità di individuare un titolo/tema nasce dall’urgenza di creare un orizzonte condivisibile, un confine comune, all’interno del quale poter delineare un percorso di ricerca, di studio. Che possa cioè generare le energie e le tensioni vitali per dare vita a uno scambio di pensiero, a un confronto di visioni. Creare un luogo in cui ci si senta vivi.
«Lontanissimi dall'idea che sia un luogo di rivoluzioni», scrivete..
Crisalide non ha di certo la presunzione di essere un luogo in cui avvengono rivolgimenti. Il termine rivoluzione, sappiamo bene, significa anche girare intorno, seguire un’orbita. Vedo qualcosa che ruota, ma immagino una rotazione non baricentrica, decentrata. È il desiderio per il margine che probabilemente nasce da un mio giovanile innamoramento per le matematiche non euclidee. Penso a Lobačevskij, giovane matematico di un’università posta alla perifieria dell’immenso impero sovietico, lontano dalle cattedrali della scienza europea: rivela al mondo lo sconfinato paesaggio delle matematiche non euclidee e disfa tutto il sistema tradizionale. Dall’altra parte Gauss, a Tubinga, il re della matematica europea, ha nel cassetto, da tempo, un piccolo libretto dedicato alle matematiche non euclidee e non ha il coraggio di pubblicarlo, lui, il sommo capo, per timore di incrinare la stabilità dei beoti, di coloro che a fatica sopportano il cambiamento. Sarà Lobačevskij e non Gauss a essere riconosciuto come iniziatore di quel formidabile cambiamento: l’analogia è forzosa ma evidente e ci dice della necessità di tenere in conto delle urgenze e delle intuizioni avanzate dalle realtà poste ai margini del sapere dominante.
Altra frase iniziale: «Crisalide non è un rompighiaccio»
Per me è doloroso riconoscere che si procede costantemente in una illusoria finzione. Le frasi a cui fai riferimento sono semplicemente una sorta di anelito, il lancio in avanti di un sasso da raccogliere per scardinare l’apatia, sono strali per fendere, per lacerare l’abitudine.
Questa cordicina attaccata alla nuca e che ti trattiene mentre sei pronto già a lanciarti, è un’altra illusione, così come lo è la dichiarazione che Crisalide – o il nostro operato – sia un avamposto, non tanto per farsi conoscere quanto per conoscere il mondo. Crisalide, certo, dovrebbe essere un rompighiaccio, un luogo di rivoluzioni, ma non sono riuscito a renderla tale. O almeno non come vorrei.
Crisalide non fa che suggerire, come una poesia. Lancia questioni senza la pretesa che i suoi frequentatori vi si possano ritrovare.
Come il programma si relaziona alla questione del caos? Cosa cerchi negli artisti che porti a Crisalide?
Il tema è qualcosa che nasce sempre prima di tutto, a volte trova la sua definizione negli stimoli che provengono dalle edizioni passate, a volte è frutto di una intuizione istantanea.
Crisalide è il luogo in cui noi stessi cerchiamo di capire. Sentiamo la necessità di individuare una sensazione fondamentale. Il titolo non è quindi uno strumento per la scelta, ma una sorta di conforto, delimita un confine che ci aiuta a mantenerci vigili e mettere a lato il gusto personale. Gli artisti di questa edizione sembrano tutti allontanare, diciamo così, la certezza della norma, hanno in comune il piacere di viaggiare su linee di fuga. In Ivo Dimchev vedo il manifestarsi una lucidità folle. I filosofi Giovanni Leghissa e Paolo Godani sono due guerrieri che combattono una aspra battaglia contro l’omologazione. Nel lavoro coreografico di Myriam Gourfink, nel suo percorso micrometrico sul movimento, intuisco la possibilità di attraversare lo spazio-tempo.
Perché c’è Crisalide? Un’urgenza? Una necessità? Un’abitudine? Siamo costretti ad uscire dalla scena per andare verso il mondo, per scandagliare il fondo di questo oceano e lo attraversiamo come una zattera capovolta. Gli artisti presenti sono poeti di una lingua sconosciuta di cui si assapora un significato lontano. La vicinanza delle due sensazioni, quella prodotta dal luogo, quella rilasciata dall’artista, è la fonte per generare nuove vie, non solo immateriali.
Sulla delusione e il “non euclideo”. Di questo ha bisogno il teatro oggi? Chiediamo questo al teatro?
Masque nasce e vive in una condizione di marginalità rispetto al sistema teatrale. Di questa marginalità abbiamo in effetti goduto. Troppo lontane le urgenze da cui eravamo mossi, troppo diverse le modalità di produzione, altri i desideri che ci spingevano nella costruzione dello spazio di lavoro: tutto questo faceva del fatto teatrale un tutt’uno con la nostra vita.
Ora non so proprio cosa stia a dire la parola teatro. Non che si siano smussate le differenze ma sento sempre meno urgente l’interrogazione sulla natura del nostro fare. Si agisce naturalmente e questo sentimento ora ci rende in qualche modo quieti. Provengo da studi di ingegneria. Per diversi anni ho praticato quel mestiere, che sempre ha a che fare con la “riuscita”. L’attitudine che me ne veniva, di continuo confonto tra la acquisizione delle conoscenze necessarie per portare a termine un compito e la realizzazione del medesimo, mi ha sempre messo nella angosciosa sensazione di sentirmi costantemente impreparato nel mio lento percorso di avvicinamento al teatro.
Agli inizi rifuggevamo dal teatro conosciuto, dall’altra sentivamo un fortissimo desiderio di entrarci, una grande forza ci animava. Masque teatro: la parola teatro era lì per dire del nostro ardire, forse serviva a ricordarci dove si stava agendo. Se ora accenno al “mio teatro”, parlo comunque di un'esperienza intima, personalissima; in realtà non so se “teatro” è la parola giusta per definire il nostro fare, sebbene questo dia origine a prodotti che si sostanziano nella relazione teatrale, nel rapporto tra la scena e lo spettatore.
Perchè il teatro, oggi?
Ho sempre considerato il teatro come un estrattore. Prima di cercare di spiegare cosa intendo con questo termine e quindi tentare di rispondere alla domanda, del perché il teatro oggi, devo ritornare ancora su cosa sia il teatro. La difficoltà nasce perché pur aspirando ad un teatro ideale, inevitabilmente non riesco a pensare se non al nostro teatro. A complicare il tutto sta il fatto che il teatro sembra non coincidere unicamente con la scena. Non che lo spettacolo sia lo scarto delle nostre lavorazioni, ma certamente la questione della creazione non sta unicamente nella produzione di nuove opere. Il sistema teatrale spinge a questo: a creare macchine per lo spettacolo. Noi diciamo basta con questa folle rincorsa alla produzione se non viene affiancata da un poderoso lavoro di accrescimento, di potenziamento e quindi di una acquisizione di conoscenza condivisibile.
Sappiamo che il teatro, anche se solo in rari casi, è stato testimone di concatenamenti potenti fra la scena, lo studio e la vita.
Non che con il teatro si voglia salvare l’uomo, ma come qualcun altro ha ben detto, forse ci si può vergognarsene di meno.
Quello che vedo è un gruppo di persone che lavorarano a un progetto comune, che si dedicano alla costruzione del luogo in cui lavorare, che scelgono una direzione di studio e di ricerca e la sviluppano in tempi e modi consoni, senza subire lo stravolgimento imposto da condizionamenti esterni.
Non credo che questa aspirazione sia frutto di una visione utopica.
La questione dell'intimità con il teatro, con “il tuo” teatro pare cruciale...
Quando lavoro l'opera mi basta. Perseguo una logica salvifica per l'attore. Assieme lavoriamo affinchè la figura abbia una sua autosufficienza, che sia accompagnata o meglio abitata da un’energia vitale che le permetta di stare nella verità.
Vedo spessissimo “interpretazioni” e quasi mai vedo delle “verità in atto”.
Costantemente in allerta la figura segue il flusso della struttura drammaturgica e contemporaneamente ne sta al di fuori, dando certezza che quello che fa è legato a una sua precisa volontà di azione. L’attore dovrebbe agire perché vuole agire e non perché iscritto all’interno di una sequenza prestabilita.
Può sembrare una contraddizione in termini. Ma qui sta tutto.
Quando subentrano condizioni negative che impediscono questa sorta di concertazione tra la figura, l’interprete e colui che assiste alla creazione, si fallisce. L’interprete stenta così a riconoscere la sua stessa energia: la figura scompare o mai appare: è la disfatta.
La direzione dello sguardo è cruciale: guardare le cose e non vederle passivamente.
Lanciare attorno a se una zona oscura entro la quale brillare.
Si vuole giacere nel gorgo di una sensazione fondamentale, generata a volte spontaneamente da un intimo ardore, a volte ripresa o diciamo, assorbita, da un concetto, da un pensiero di altra origine, spesso sotto forma di scrittura.
Questa sensazione di trasmissione, ma anche ripensando alla “delusione” di partenza, quale discorso intesse con Marmo, in cui con Cioran stesso e con Blanchot si parla di fine della civiltà e di disastro?
Non so come, ma a un certo punto sentii la fortissima necessità di ragionare sul concetto di disastro. Questo non veniva da rimiscenze legate alla lettura di Blanchot.
La Scrittura del disastro è un libro che ho sempre tenuto vicino a me.
Avevo da poco terminato la lettura di un testo di fisica scritto da un certo Desiderius Papp: I due volti del mondo fisico.
Qui si parla dell’acquisizione da parte della scienza di fine secolo diciannovesimo della certezza dell’inconsistenza delle cose. Abolita prima la geometria Euclidea, accantonata la fisica newtoniana, la meccanica quantistica ci diceva dell’impossibilità di determinare con precisione la posizione dell’elettrone, delle particelle subatomiche. Ad esse veniva addirittura associata una propria attività ondulatoria. Già che non bastasse, oltre alla duplice natura corpuscolare ed ondulatoria della luce, da poco scoperta, ecco nascere il dubbio, più atroce, sulla natura della materia. Lì percepii un primo segno del disastro, di un disastro che Blanchot definiva incombente. Eravamo usciti dallo spazio letterario, per entrare in un vortice oscuro.
Avevo trovato la sensazione primordiale che cercavo. Eravamo pronti per iniziare una nuova avventura. Ma non sapevo ancora che tutto ciò non sarebbe bastato...