Dal 28 al 31 ottobre 2016 si è svolta la XXIII edizione del festival Crisalide, a Forlì, ideato e curato da Masque Teatro. In quella occasione, attraverso il progetto "Conversazioni scritte", sono state prodotte una serie di interviste con gli artisti in programma con il desiderio di porsi, direttamente e non, una domanda di fondo: perché il teatro? Continuiamo a parlare del teatro, della danza, della performance in termini di differenza, misurando la possibilità che quello della scena sia uno spazio di alterità, di contraddizione, di rivelazione. Sono ipotesi ancora in campo? Attorno a questo spunto si sono costruite conversazioni che hanno ovviamente anche cercato di discutere delle poetiche dei singoli artisti, e degli spettacoli del festival.
Le interviste sono a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Anche quest’anno all’interno di Crisalide hai proposto il workshop "Photo-graphia di scena". Quali sono le domande che ti poni con i partecipanti?
Per me il workshop è innanzitutto un’esperienza di condivisione. Di solito lavoro con gruppi piccoli di sette otto persone, il che permette un buon livello di scambio. Come prima cosa cerco di capire il percorso dei partecipanti e gli obiettivi che li hanno condotti al mio laboratorio. Se hanno un portfolio chiedo loro di portarlo, in modo da confrontarmi col loro materiale. La prima parte del laboratorio consiste in una lezione frontale sulla storia della fotografia di scena in cui contestualizzo anche la situazione attuale. In seguito passo subito alla parte pratica. Mi interessa trasmettere la mia esperienza personale di vicinanza con la materia teatrale. Gli allievi hanno la possibilità di fotografare gli artisti di Crisalide durante le prove e gli spettacoli. Cerco di comunicare gli strumenti pratici che mi hanno permesso di trovarmi a mio agio nell’ambiente teatrale. Successivamente rivediamo le foto e le commentiamo insieme. Emergono sempre lavori molto differenti. Se il tempo a disposizione lo permette fornisco anche qualche elemento di post-produzione, che non sempre si concilia con la fotografia di scena, ma può essere uno strumento. Cerco anche di illustrare le modalità di relazione con le compagnie, gli uffici stampa e le altre realtà con cui si confronta il fotografo di scena.
La dialettica fra interpretazione e documentazione è al centro della fotografia di scena. Come la approfondite?
In questo caso il un gruppo è più piccolo del solito e casualmente tutti i partecipanti avevano una preparazione fotografica. Questo mi ha permesso di approfondire un loro percorso di confronto con la fotografia di scena e mi ha dato la possibilità di mettermi in gioco portando quello che sono, il mio percorso come fotografa. Addirittura mi è stato chiesto esplicitamente di fotografare insieme a loro. Solitamente non fotografo solo per documentare, ma uso l’immagine come metafora per qualcosa che voglio dire. Mi arriva una visione epifanica: sfrutto quello che c’è dall’altra parte per creare un mio immaginario, cosa che posso fare in modo più concentrato con la fotografia di scena perché in teatro le luci creano una visione scultorea. Uso il concetto di “tradire” come descrizione dell'attraversamento diagonale dell'opera, sfrutto il punto di vista dello spettatore per raccontare qualcosa che allo spettatore non è rivelato.
Quali sono i limiti che ti imponi, in tale “tradimento”?
Cerco sempre di mantenere una forma di rispetto, di non andare troppo al di là della messa in scena pensata per lo spettatore. Sento che la fotografia mi permetterebbe un tradimento integrale, ma sono legata al mondo del teatro da qualcosa di passionale, umano, che mi impedisce di farlo. La fotografia comunque mi permette di destare curiosità verso un certo genere di teatro che non è riconosciuto in maniera immediata da tutti gli spettatori. Ho scritto spesso articoli fotografici in cui raccontavo gli spettacoli in una maniera molto personale e questo generava una curiosità diventando un tramite per avvicinare persone che solitamente sono scettiche.
Come cerchi le condizioni che permettono all’epifania di presentarsi?
Credo sia questione di asservirsi a una deformazione professionale tecnica che mi permette di riconoscere la luce, in modo che la macchina fotografica diventi un prolungamento del mio occhio. Certo alla base c'è una preparazione tecnica relativa alla conoscenza della luce, che nel mio caso si affianca alla mia formazione come scenografa, quindi architettonica. Quando guardo una determinata scena immediatamente seziono l’immagine, ai ragazzi del workshop cerco invece di consegnare le immagini incoraggiandoli a concentrarsi su una direzione, un punto, cercando di non indirizzare eccessivamente il loro sguardo. Li lascio lavorare artigianalmente sulla suggestione.
Per me è fonte di grandi suggestioni lavorare sul movimento in scena, lo sviluppo del movimento implica posizioni sgraziate, di bilico assoluto, di precarietà. Scorgere questi momenti, correre dietro alle sgraziature è qualcosa che mi appassiona tantissimo e mi lega alla messa in scena. In questo modo mi sono approcciata al lavoro di Ivo Dimchev, apparentemente semplice dal punto di vista scenico. Sono andata a cercare i capelli che si sospendono in continuazione, i momenti di disequilibrio. Nonostante non abbia fotografato quel lavoro ne ho trattenuto una visione fotografica molto chiara..
Come si relazionano queste domande a quello che fai al di fuori del teatro, che in parte presenti in Asintoto atlantico, in mostra in questi giorni negli spazi del Teatro Félix Guattari?
Possiedo una formazione analogica ma, avendo dovuto accantonare il lavoro con la camera oscura per ragioni logistiche, ho creato una maniera di relazionarmi alla stampa fotografica in un modo che potessi “accettare”. Ho cercato qualcosa che uscisse dai margini della definizione didascalica dell’oggetto stampato, un correlativo digitale che mi avvicinasse all'analogico. Quando si sviluppa in camera oscura è possibile riesporre infinite volte la stampa fotografica. Lo stesso processo io lo riproduco con la stampa fotografica digitale, che vado a stampare su svariati supporti e poi diluisco con altri materiali esterni che agiscono come gli acidi sullo sviluppo della pellicola. Alcuni dei lavori in mostra al Teatro Guattari sono un esempio dell’inizio di questo processo, attraversato il quale il prodotto fotografico diventa un oggetto unico, sempre diverso. Un nascondere, un omettere, un trasformare: tanto più per lavoro ho dovuto raccontare in modo didascalico ciò che c’era nel mondo esterno, tanto più la mia ricerca estetica è andata nella direzione opposta.
Quale dialogo cerchi fra la sfumatura del paesaggio, che diventa quasi nebbia, e la definizione dei volti che s'insinuano nelle immagini?
Nel mio lavoro c’è una sensazione di foschia, il tentativo di dare densità materica alla stratificazione di polvere, di nebbia, vento, luce. Cerco delle profondità da attraversare, all'interno delle quali il corpo dà una misura della realtà nel momento in cui emerge. Sappiamo bene che non è possibile concepire uno spazio vuoto e più cerco di rappresentare un vuoto più devo avere la capacità di affondarci dentro, di misurarne il volume. Il corpo, la figura può essere una parte di corpo che emerge e che non riconosciamo come tale, o due figure insieme che si completano e che entrano in punti opposti dell’inquadratura. Il corpo può presentarsi come l’illuminazione di determinate parti di un volto. Oppure possono esserci lasciti dell’umano. Quando fotografo un luogo abbandonato voglio raccontare le tracce della vita in quel luogo.
Dialoghi con gli artisti. Progetto a cura di Lorenzo Donati in collaborazione con Jessica Imolesi.
Intervista realizzata al Fabbrica delle Candele (Forlì), 31 ottobre 2016