Antonio Tarantino, nato a Bolzano nel 1938, è considerato un “alfiere fuori controllo di una nuova drammaturgia”. Non ha compiuto studi regolari e da autodidatta si è applicato al disegno e alla pittura. Superata la soglia dei cinquanti'anni, ha cominciato a scrivere testi teatrali, immediatamente premiati al Riccione e all'Ubu: atti spesso corali che deformano il linguaggio per demistificare la realtà scavando nelle pieghe della Storia.
Le sue piéces sono edite da Ubulibri e raccolte in tre volumi:
Quattro atti profani: Stabat Mater, Passione secondo Giovanni, Vespro della Beata Vergine, Lustrini tutti messi in scena dal regista franco-tunisino Cherif negli anni '90;
Materiali per una tragedia tedesca: un grande affresco con riferimenti alla Germania degli anni '70, svolto in chiave grottesca, con un linguaggio stravolto e personaggi marionettistici, anch'esso rielaborato da Cherif;
La casa di Ramallah e altre conversazioni: tre opere che affrontano il conflitto arabo-israeliano con un approccio sarcasticamente cinico. Accanto ad esse Stranieri ribadisce la correlazione e al tempo stesso la scissione tra dimensione privata e sfera sociale.
Altri testi covano non rappresentati, né pubblicati.
Come mai non ha compiuto un apprendistato narrativo prima di approdare alla drammaturgia?
In realtà privatamente ho scritto diversi racconti ed un romanzo. Non ho maturato nessuna vocazione specifica per il teatro: la scrittura drammaturgica è sorta dallo stimolo di amici dell'ambiente teatrale.
La sua scrittura è stata accostata a quella di Bernhard: riconosce una certa parentela?
No, con Bernhard non centro niente: affronto tematiche completamente diverse; c'è un'affinità nella tecnica espressiva, che ricorre alla brevità per economizzare parole ed intensificare i significati.
Lei recita?
Sì, ma non amo molto esibirmi. L'ho fatto su richiesta di amici ed è stata un'opportunità che progressivamente mi ha insegnato la tecnica e le difficoltà attoriali e teatrali in genere, spostandomi un po’ sul piano affettivo verso la drammaturgia. Ora voglio bene al teatro, ne riconosco la forza e le potenzialità.
Che effetto Le hanno suscitato le messe in scena delle Sue piéce?
C'è una distanza inevitabile tra ciò che si scrive, le immagini fantasticate nel corso della scrittura e quelle materializzate in teatro. Ma questo è un bene perché offre lo spunto di oltrepassare l’autointerpretazione e di confrontarsi con l’interpretazione altrui, che svela all’autore stesso molto di più di ciò che egli sa di sé e della propria opera. Non si deve restare legati troppo alla propria scrittura perché essa esorbita rispetto alle intenzioni di chi scrive e mette in moto una ricerca da parte del lettore o dell’interprete. Si ottiene così un valore aggiunto, determinato dal meticciato tra le intenzioni dell'autore, l'interpretazione dell'attore e quella dello spettatore.
Conosceva già il lavoro del Teatro delle Albe?
Sì, attraverso il loro interesse per l’Africa, le frange marginali, le enclave di stranieri presenti in Italia. Ho ricevuto un'impressione molto positiva da Sterminio e ho maturato molta fiducia, direi una fede incrollabile. D'altronde non sono mai stato tradito da nessuno quando ho offerto i miei scritti alla trasposizione teatrale.
Come reagisce il pubblico alla rappresentazione dei Suoi testi?
Con molta partecipazione. Ma oggi non c’è più niente che dia scandalo, non è più il tempo delle provocazioni ma della penetrazione, della comprensione. E' tempo di essere all’altezza di essere uomini, umani e aperti alla socialità.
Perchè Stranieri è incluso in una serie di atti che riflettono sul conflitto arabo-israeliano?
Stranieri è un testo relativamente isolato. E' stato scritto nel 2000 in occasione della morte di mio fratello: allora non riuscivo a spiegarmi perché fosse morto e mi trovavo di fronte ad un sentimento estremamente forte e sconosciuto, essendo i miei genitori scomparsi prematuramente. Si è trattato di un incontro autentico con la morte. Dall'elaborazione del lutto è uscito questo testo dove emergono diverse forme di estraneità: al proprio io, agli altri, alla morte stessa. Oggi la morte tende ad essere espunta dall'orizzonte esistenziale non solo perché privata di ritualità ma anche perché esorcizzata con miti di immortalità. La riflessione sulla morte rispecchia anche il rapporto degli uomini con la vita.
Sembra che la trama intenda evidenziare come le nevrosi soggettive stiano alla radice della paura e della violenza collettive.
Sì, il testo insiste sul motivo di una paura imminente, che oggigiorno appare un sentimento inevitabile per far funzionare il mondo. Sembra che se non si incute timore, non si possa governare e che le stesse persone che minacciano la moltitudine, debbano poi rassicurarla, come un padre.
Per incidere su questo atteggiamento si può fare poco, ma quel poco deve esser fatto; io devo farlo e lo stesso teatro è tenuto a ciò.
I Suoi testi sembrano denunciare uno stato di guerra permanente, come non ci fosse stata nessuna soluzione di continuità rispetto ai grandi confllitti mondiali, dell'ultimo dei quali Lei è stato testimone, subendo anche uno sfollamento.
Viviamo una realtà che genera inquietudine e, contemporaneamente, da una parte pietà per la nostra condizione e dall'altra disaffezione per le istuzioni, per le appartenenze, per le fedi illuministe o tardo illuministe. La Storia è come una sfinge: promette senza mantenere o getta sul piatto delle cose imprevedibili. Io sono giunto ad una conclusione provvisoria: non c’è niente di prevedibile, non si possono avere certezze, non c’è nessun determinismo. Il nostro pensiero è traviato da molte idee rassicuranti, come oppio che ci impedirà di vedere le cose per quelle che sono, semmai sia possibile dotarsi di efficaci strumenti di analisi. Comunque c’è un senso delle cose, perspicuo, non bisogna disperare. L’intelligenza delle generazioni corrisponde all’intelligenza del corpo: pensiamo con i sensi, con le emozioni, con i sentimenti, con un linguaggio composito e complesso che richiede capacità di penetrazione. Molta gente non vuole capire, non vuole dotarsi di certe lenti di lettura; e ciò determina una differenziazione non solo di classe sociale, censo, eccetera, ma anche di comprensione. Il Bene per noi non è un bene definito univocamente ma un insieme composito di accezioni che mina il concetto stesso, esponendolo a fraintendimenti: è questo il sintomo della decadenza di un popolo. Su questo processo storicamente la Chiesa ha grandi responsabilità, sebbene dall’unità d’Italia ad oggi il suo peso è andato ridimensionandosi e la gente sia divenuta più supersiziosa che credente. Una responsabilità rilevante nella corrosione nazionale va attribuita alla politica, che solo in epoca giolittiana ha assunto una statura maggiore. Recentemente ho composto un testo intitolato a Gramsci che reputo uno dei pochi grandi italiani, esente dall’opportunismo a cui ci siamo assuefatti. La sua lettura ancor oggi ristora.
In una simile prospettiva, s'intravede una possibilità di risanamento?
La Storia è sorprendente; non voglio spargere pessimismo, né banalità edificanti.