Come avete incontrato la drammaturgia di Tarantino e da cosa è nata l’esigenza di mettere in scena il suo testo?
Leggevamo e seguivamo Antonio Tarantino sin dall’inizio, con lo Stabat mater messo in scena da Cherif per l'interpretazione di Piera Degli Esposti nel 1995. Subito sentimmo un’aria di famiglia nella sua drammaturgia, una sintonia molto forte con il suo scrivere sulle cose in modo molto diretto e al tempo stesso percepire questa realtà nelle sue dimensioni più profonde: sacrali, metafisiche, anche oniriche.
Leggemmo Stranieri poco dopo aver concluso Sterminio. Sentimmo che dovevamo farlo. Il protagonista rappresenta una figura che già avevamo evocato: un monologante, un asserraglianto dentro alla propria paura, alla propria nevrosi come una bara che impedisce la relazione con l’esterno.
Quindi stabilite una continuità con il precedente Sterminio?
Sì. In maniera diversa, Schwab e Tarantino sono due autori che si toccano nel loro essere radicali, nel senso di perseguire la radicalità. Entrambi vedono nell’appartamento il luogo separato, come suggerisce l’etimologia del termine, qualcosa che ha attinenza con la bara, un luogo di morte, ciò che da decenni rinserra gli individui distaccandoli dalla comunità.
Questa dimensione consentiva inoltre di continuare a sviluppare il piacere del cinema naturale realizzato nelle dimensioni ristrette del bunker.
L’idea del bunker non è suggerita dal testo di Tarantino, mentre riprende il ristretto spazio scenografico di Sterminio: com’è nata l’ipotesi di riadattarlo?
Nel testo originario non c’è alcuna indicazione di spazi e azioni, si parla solo di un anonimo alloggio. Fin dall’inizio abbiamo sentito la necessità di utilizzare lo stesso bunker di Sterminio, pur modificandone lo spazio interno: intendevamo realizzare una dislocazione condominiale tra le due piéces. Oltre alla correlazione oggettiva con l’angustia nevrotica, la contrazione del volume scenico accondiscendeva al piacere del cinema naturale, ovvero della realizzazione di primi piani, dell’esaltazione del dettaglio con semplici pile, o dell’intensificazione delle vicinanze.
Anche il rapporto col pubblico si modifica in una misura più intima.
La tragedia è il momento in cui il cuore si contrae, la commedia lo espande, come sistole e diastole. Lo spettatore silente intensifica in questo contesto la sua presenza ma è sempre per principio partecipe: senza lo spettatore non si fa teatro, egli ha una sua autorialità, è un coautore.
La scrittura di Tarantino è stata assimilata a quella di Bernhard: quali elementi di originalità lo contraddistinguono?
Forse in Stranieri gli si avvicina ma Tarantino è uno scrittore di statura europea, che andrebbe conosciuto più approfonditamente. La sua originalità si esprime in una grande pietà, profonda, per tutto quello che è la miseria e la mediocrità del vivere. Un filo di pietas quasi evangelica percorre la sua scrittura, unito ad un sarcasmo di una ferocia senza limiti e ad un senso acuto del comico declinato in forme diversificate.
La trama sembra demistificare la paura e la violenza collettive come manifestazioni di nevrosi soggettive. E' un voluto messaggio lanciato alla collettività di fronte alle paure insorgenti e strumentalizzate?
Da vent’anni parliamo di un’Italia che si va imbruttendo ed incattivendo e che, invece di andare alle origini della propria violenza e delle proprie paure, getta le proprie ansie su un capro espiatorio. Il nostro teatro assume su di sé tutta la violenza che ci sta attorno. Aprire il giornale alla mattina conferma soltanto una direzione epocale intrapresa da lungi, un terremoto molto più profondo che sposta l’Italia e l’Occidente.
La vera invenzione di Tarantino, l’azione spericolata che ne fa un drammaturgo geniale, è che gli stranieri sono i nostri cari, in questo caso defunti che vengono a prenderci dall’aldilà.
Vi è quindi una dialettica tra visibile ed invisibile. Come realizzate la percezione di questa seconda dimensione?
Innanzitutto con effetti fonici e tra l’altro il terremoto è la modalità con cui si presentano gli stranieri al loro arrivo. Inoltre, abbiamo introdotto per la prima volta nella nostra teatrografia l’uso del video.
E’ l’opera che costruisce, nella sua elaborazione, la necessità di usare un linguaggio o uno strumento piuttosto di un altro.
Come ha recepito la vostra messa in scena Tarantino?
Tarantino non ha assistito ad alcuna prova. Abbiamo avuto qualche incontro amichevole ma non operativo. Ci ha detto: «Marco fate voi, io non mi confronto con i registi e le compagnie, il mio lavoro l’ho fatto ed ora tocca a voi».
I recenti spettacoli sembrano predligere un registro improntato alla cupezza e alla claustrofobia: è un’inversione di tendenza oppure una questione di alternanza e varietà stilistica?
La poetica del Teatro delle Albe non è rettilinea ma ha un andamento a spirale, toccando gli estremi opposti della tragicità e della vitalità. Si mira a materializzare di volta in volta una visione di cui si è mediatori. La realtà è così tragica che consente di inventare spazi utopici: Scampia, l'Africa, la non-scuola sono risposte reali alla quotidiana tragedia claustrofobica. E' l’utopia a dettare il passo; sono i “Felici Pochi” di cui parla Elsa Morante a continuare ad accompagnarci. Una felicità autentica può scaturire solo dalla visione diretta dell’orrore.
La proposta di uno spettacolo a numero chiuso come si inserisce nei contesti produttivi del teatro odierno?
Sterminio è stato un azzardo pieno di incognite, sapevamo che correvamo dei rischi; invece ci ha regalato molte soddisfazioni. Gli stessi gestori l’hanno accolto con disponibilità ed entusiasmo inattesi. Per noi questo è il segno che, se il lavoro scava a fondo, i teatri non possono far finta di nulla. Credo si debba lasciare segni profondi come cicatrici.
Com’è cambiata la vostra percezione di replica?
Non esistono repliche, ogni sera è una prima.