Al salone delle Feste di Correggio c'è un attrice sola in una scena sgombra. Abiti di seta e suoni percussivi evocano una lontana atmosfera orientale, mentre il teatro sembra animarsi di vita propria quando giungono sul palco una sedia, messaggi su fogli di carta, una sagoma di legno che potrebbe essere l'intelaiatura di una porta. Warum Warum di Peter Brook è un regalo, qualcosa che ci è dato in dono come da un amico in visita. Warum Warum è una geografia di memorie teatrali scritte da Brook stesso e dalla sua dramaturg Marie-Hélène Estienne, e ci viene consegnato dalla magnetica prova di una delle sue storiche attrici, Miriam Goldschmidt. Warum Warum disarma anche lo spettatore più preparato, con il procedere di una narrazione che si nutre di riferimenti e citazioni che però sanno prima di tutto farsi racconto e condivisione di una passione.
E' complesso parlare dei maestri del novecento. Il valore di “invenzione” del loro teatro, come sottolineava Claudio Meldolesi a proposito di figure e idee “sprecate” dalla scena, non si limita a spettacoli che rimangono nei libri di storia. Bisogna guardare a fondo, magari in teatri distanti che non hanno conosciuto le opere in questione. Scopriremo forse alcune radici che vengono da lontano, ma che ancora parlano del presente. Si può dire che Brook sia stato uno dei primi ad avvertire quanto l'aria di un certo teatro, quello ufficiale e “tradizionale”, possa essere asfissiante. Dopo il riconoscimento ottenuto in Inghilterra nelle scene commerciali, decise di mollare tutto o quasi per sondare il richiamo di un'urgenza, che lo porterà a fondare un centro di ricerca a Parigi e successivamente a partire per anni di studio in Africa; si può dire che Brook sia stato il più importante regista shakesperiano del '900, almeno dal Sogno di una notte di mezza estate del '71 senza scenografie e con trapezi da circo; si può infine affermare che il Mahabharata del 1985, che in nove ore incrociava tradizioni e codici molteplici, sia stato uno degli spettacoli cruciali del teatro del secolo scorso.
Oggi continua a meravigliarci la rarefazione estrema dei suoi lavori, e la straordinaria capacità degli attori di “essere”, praticamente da soli, lo spettacolo. Una di queste è Miriam Goldschmidt, che a Correggio ripercorre alcune delle domande fondamentali di chi fa teatro: dove abita l'io? Come rendere la “paura” in scena? Nell'arco di un ora l'attrice riesce ad attraversare tutte le possibili condizioni della recitazione, da una sorta di informale colloquialità fino a un'immedesimazione che ottunde i sensi. La Goldschmidt entra in scena e sembra nominare lo spazio vuoto che le sta di fronte, poi gradualmente lo anima con pochissimi oggetti, lo fa parlare e lo riempie come se fosse uno sciamano cavalcato dallo spirito, che sembra proprio essere quello del teatro. Entra ed esce dalla porta simulando un limite fra chi recita e l'uomo di tutti i giorni, si fa per istanti “possedere” dalle parole di Shylock del Mercante di Venezia, si chiede seduta di fronte a noi cosa sia un uomo, se perde la facoltà delle passioni. Il teatro è un'imbroglio, dice, eppure ecco comparire in lei il cieco Gloucester del Re Lear, a cui viene fatto credere (come a teatro!) di potersi suicidare da una scogliera che in realtà non esiste.
Brook ricorda che Dio stesso ha creato il teatro, «il settimo giorno dopo che è subentrata la noia». Saranno gli uomini a dividerne i ruoli e a litigare per decidere chi debba essere più importante, come nella vita. La soluzione divina ha la forma di una parola scritta su un foglietto di carta: il foglio però è andato smarrito, non sappiamo più quali saranno le sorti del teatro, non abbiamo ricette pronte, e forse se qualcuno lo trovasse non gli crederemmo. Come nel mondo in cui viviamo?