Chiusura esistenziale: nessun contatto con il fuori, tutto catapultato in un dentro asfittico, svuotato, iperbarico: nessuna eco riproducibile, ma stantio monologo senza replica. Un anziano piccoloborghese in pigiama, asserragliato nel suo buio appartamento, ostenta senza pudori né perplessità l’apologia sulla sua vita. La sua brutale e sregolata sagoma si illumina delle sue stesse parole: massime e aforismi secchi, quasi dettati a chi volesse nel caso prendere appunti. Propina sentenze con la certezza di chi ha saputo vivere con distacco dai turbamenti e dalle perplessità che il contatto con le persone possono far scaturire. Il solitario monologante è Luigi Dadina, attore storico del Teatro delle Albe, che si parla addosso in un’incessante autodifesa di se stesso e delle sue abili capacità di sopravvivenza. Risponde a un continuo e insistente bussare alla porta con la sua lingua sprezzante, fatta di panegirici e melliflue banalità, oscenità da scaricatore di porto e inconfutabili messe a punto delle sue capacità di resistenza: sì alla scienza, no alla filosofia, sì al guadagno disonesto, no alle distruttive teorie nichilistiche di Heidegger. Ma soprattutto no agli ‘stranieri’: all’altro, al diverso da noi. Vince la ferrea ostinazione di respingere ciò che non è controllabile, che non si può ridurre in una semplificatoria formula statistica. Ma il mondo fuori dall’isolato bunker non ha mai smesso di esistere e, seppur respinto, continua a martellare nella testa di chi guarda. Nella regia di Marco Martinelli e nel testo dell’irruente Antonio Tarantino, definito “alfiere fuori controllo di una nuova drammaturgia che lavora sul linguaggio per demistificare la realtà”, questo bussare continuo diventa un lacerante segnale di un’esistenza isolata anche dalle realtà a noi più vicine: gli ‘stranieri’ sono i nostri figli, i nostri genitori, i nostri cari, vicini e lontani, sono gli immigrati che invadono l’Alta Italia: tutti restano fuori dal bunker! Così la moglie (Ermanna Montanari) e il figlio (Alessandro Renda) restano dapprima fuori la porta, “proiettati” sulle pareti, poi vi entrano in silenzio, fantasmi di un passato che li ha visti vittime dell’orco solitario. E su una sedia sbilenca, sgraziata, quasi espressionista nelle forme, quell’uomo sprofonda nella sua altisonante debolezza: difendersi dallo ‘straniero’ è difendersi dalle nostre più intime paure. L’esistenza viene così stritolata e assoggettata da quel bunker pieno di pregiudizi. La verità potrebbe non essere lontana: chi non rischia muore nell’oscurità, soffocato dalla propria ostinata difesa da ciò che, seppur vicino, non conosciamo.