“Mi chiamo Romeo Castellucci”. Un regista osannato sui maggiori palcoscenici europei si presenta come un normale essere umano avanzando da una vastità vuota e cupa. Siamo alle porte dell’Inferno. Esaurito il ciclo della Tragedia Endogonidia, e soprattutto la sua sperimentazione stilistica, la Socìetas Raffaello Sanzio vira alla Commedia, adottando e nobilitando un linguaggio scenico universalmente comprensibile, disponibile a misurarsi con il mondo ordinario.
Come Dante, l'autore è contemporaneamente attore. Ma compare solo nella scena iniziale, lasciando poi il posto a una massa di dannati silenti. La Socìetas depone la lingua aulica, iperbolicamente sofisticata, caratteristica della Tragedia Endogonidia, e intraprende un percorso di redenzione tematica e stilistica, esponendosi a deludere le aspettative di un'èlite di fan: a questi, forse personificati da pastori tedeschi, Romeo si offre letteralmente in pasto. Il progetto intitolato Commedia si spoglia dell'aggettivo Divina prendendo le distanze dall'opera letteraria, per quanto si possano ricercare consonanze. Castellucci ne valorizza un motivo latente, cioè quello della nostalgia degli affetti, degli abbracci, dei sussurri d'amore e del corpo come strumento comunicativo. Ad intensificare la trasmissione del pathos e ad esaltare la compostezza formale, concorre la lentezza, un ritmo di movimenti quasi trattenuti dal dolore, talora sciolti in morbidezze nostalgiche, coordinati anche nei momenti corali. Laico e agnostico è l'approccio all'Inferno, la cui cupezza evoca la dimensione terrena, come nel capolavoro dantesco. Emblematica la presenza costante di una palla da basket che passa di vita in vita, trasversalmente alle generazioni: fatta rimbalzare, provoca echi di frantumazioni amplificate in modo agghiacciante. Chi la tiene più a lungo è un bambino, che sopravvive ad una sequela di cadute corporee, quasi a simboleggiare un’inesauribile forza generativa. Cura e dedizione formali non vengono meno, né impegnativi congegni meccanici, ma è ridimensionato il predominio della semantica visiva, che lanciava una sfida al potere dell'immagine nel mondo contemporaneo; nell’Inferno si concede invece spazio a moti emotivi che invitano all’empatia. Una delle cifre stilistiche dell'opera risiede nel gioco di reciproca osservazione tra palco e platea. I teatranti stessi si sporgono ai limiti del palcoscenico; tentano interazioni talora verbali, prevalentemente gestuali e di sguardi. La scena è un oggetto dinamico che ci guarda ed interroga: ci fotografa, rispecchia, scruta, soprattutto offre alla rielaborazione personale una sequenza di suggestioni visive e relazionali, vibranti e polisemantiche.
Accenni di autobiografismo affiorano verso la conclusione: dalla dedica ai compagni di strada della Socìetas Raffaello Sanzio “che oggi non ci sono più”, all'introduzione dell'unica personalità riconoscibile, Andy Warhol. Conclusa l'epoca della riproducibilità propria della serie della Tragedia Endogonidia, si ritrova disorientato e dannato; scatta una polaroid al pubblico e gli applaude; contempla la luna e le “stelle”, sei lettere proiettate su sei schermi. Quando l'idolo muore, esse, o meglio i televisori, crollano e ne restano sospese solo due: TE.