Ha debuttato in luglio in Francia al Festival d’Avignone, uno degli eventi teatrali più importanti d’Europa, mentre il suo regista era il primo italiano scelto come artista associato per la codirezione artistica: eppure la Divina Commedia di Romeo Castellucci è una delle punte d’eccellenza del teatro made in Italy. Un’opera d’arte “da esportazione”, purtroppo, in un panorama nazionale che non ha la lungimiranza di seguire la Socìetas Raffaello Sanzio sul terreno della ricerca artistica, mentre all’estero è osannata dal pubblico e dalla critica.
A Vie un’occasione unica al Teatro Comunale, con Inferno, cui seguiranno Purgatorio a Reggio Emilia e Paradiso a Cesena fuori dalla programmazione del festival, proposti sul territorio da ERT, che ne ha curato la coproduzione.
La Socìetas è stata una tra i maggiori artefici della creazione di un nuovo linguaggio teatrale: questa tensione porta oggi Castellucci a confrontarsi con la Divina Commedia, in cui il percorso immaginifico nel mondo metafisico medievale ha coinciso con l’invenzione di una nuova lingua, la nostra. La Commedia riletta dalla Socìetas viene spogliata dell’appellativo postumo di “Divina” per essere restituita non nella autorevolezza filologica ma nella reviviscenza dell’esperienza dantesca: Dante come attore, non come autore. L’anno scorso Vie ha ospitato Vexilla regis prodeunt Inferni (su questo sito il nostro intervento a riguardo) primo studio preparatorio di Inferno, e in quella occasione Castellucci scandagliava le ulteriori possibilità della lingua creata nel monumentale ciclo della Tragedia Endogonidia, esponendosi consapevolmente al pericolo del divario tra l’evoluzione delle forme passate e il nuovo oggetto d’indagine. Ma oggi la Socìetas sembra essere a una nuova svolta. Castellucci attore, non solo autore: sbranato dai cani in scena, allegoria che rivela il momento critico del percorso artistico personale ma anche dell’artista tout-court. L’enigma del senso e del linguaggio, nelle diverse età che la compagnia ha attraversato, già aveva rivelato il rischio estremo che è proprio della ricerca come destino, cioè dell’involuzione nell’incomunicabile, del paradosso irrisolto. A questo vicolo cieco il gruppo è sfuggito nel passato percorrendo, da La discesa di Inanna del 1989, un itinerario à rebours verso il mito e quindi il simbolo, archetipo linguistico, di cui la Tragedia Endogonidia è stato culmine. In Inferno sta il segno di un ennesimo superamento, nel cambio di testimone, come suggerisce lo studioso Piergiorgio Giacchè, sull'ultimo numero de "Lo Straniero" (agosto/settembre 2008), dalla profondità viscerale di Artaud alla superficie seriale di Andy Warhol, parodico Virgilio in scena. Il mistero della commedia dantesca si rigenera nella rappresentazione dell’enigma allegorico di un inferno del nostro tempo, desacralizzato, spostando l’asse della relazione col pubblico dal dominio del simbolico e del viscerale a una visione della profondità come somma di livelli, strati di immagini e di senso, che costringono lo spettatore alla responsabilità della visione, dell’atto interpretativo.