Partiremmo con un racconto su questo festival, provando a snodare le varie e tante anime che lo compongono in vista di chi ci legge e si farà un’idea generale attraverso questa intervista.
Dopo tanti anni di programmazioni e progetti, Ert avverte in modo chiaro la consistenza del proprio lavoro e la responsabilità che questo comporta. Tale responsabilità deriva principalmente dall’essere un mezzo tra quel che chiede il territorio e il pubblico, e ciò che chiedono gli artisti, meritevoli ora più che mai di visibilità. Vie è l’unico festival in Italia organizzato interamente da un teatro stabile, ed è proprio questo ‘essere pubblico’ che può permettere la totale onestà nel cercare proposte interessanti per chi le avanza ma soprattutto per le persone a cui si rivolge.
Un altro elemento che per noi è sempre stato importante è il nomadismo. Essere nomadi all’interno del teatro è importante per avere un quadro generale di ciò che si sta svolgendo attorno a noi, soprattutto in questo momento in cui le realtà europee ed extraeuropee sono in continuo movimento.
Non abbiamo mai avuto un tema di riferimento, il nostro obiettivo principale è quello di far crescere il teatro contemporaneo nelle sue molteplicità e capacità di essere sempre diverso. È tenendo conto di tutto questo, che Vie si muove in diverse direzioni: una è sicuramente quella che segue le nostre produzioni, come Eremos di Terzopoulos, La Menzogna di Pippo Delbono, la seconda parte di Angels in America del Teatro dell’Elfo (Perestrojka) o Homo Turbae di Claudia Castellucci. Un’altra è il progetto Prospero, in cui si inserisce il lavoro di Ostermeier John Gabriel Borkmann, quello di due giovani artisti, uno belga, Jean-Benoit Ugeux, e uno portoghese, Teatro Praga, e un artista associato, Circolando; l’importanza di Prospero deriva dal mettere in rapporto diversi sistemi teatrali, proponendo lo scambio e la cooperazione per un’integrazione e unificazione della cultura europea. Un’altra linea è quella rappresentata dalle compagnie regionali: Teatrino Clandestino, ad esempio, ma anche Fanny&Alexander, Dewey Dell e Daniele Albanese. Abbiamo poi altre ospitalità come il Belarus Free Theatre, che propone l’intero repertorio e racconta la Bielorussia di oggi.
Tornando a Prospero: trai suoi obiettivi c’è quello di favorire l’integrazione e l’unione delle culture dei popoli europei. Come il teatro dice la sua in questo?
Il lavoro su Prospero è non solo sul piano esterno ma anche quello interno. Consiste nel confrontarsi con un sistema teatrale diverso da quello italiano, un'apertura di una prospettiva di pensiero nuova e particolarmente interessante. Una delle cose importanti dei progetti europei è la conoscenza e l’esperienza che si raggiungono lavorando con gli altri. Per quello che riguarda l’unione e la cultura europea, lo scambio dei registi e degli allievi, i percorsi di formazione, le coproduzioni internazionali sono tutti passi avanti che si compiono. La forza di Prospero è proprio nel suo non essere un progetto parassita, nell’innescare livelli coproduttivi e livelli di ospitalità molto più ampi. Confido molto nella forza propulsiva di questo progetto.
“Contemporaneo” è una parola chiave nella politica di Vie. È possibile collegarla a una tensione "popolare" che ci sembra d'intravedere nelle sue parole?
Per anni ci siamo appoggiati a parole che come “sperimentazione” o “ricerca”, che sono sembrate etichette in cui inquadrare il lavoro degli artisti, spesso danneggiandolo. Penso invece che “contemporaneo” sia una parola neutrale, che possa permettere il confronto tra i vari linguaggi. Per me “contemporaneo” vuol dire avere a disposizione una molteplicità di linguaggi e pratiche teatrali, un teatro che sa guardare allo spettatore come elemento che completa l’evento che si sta svolgendo. Una proposta è popolare quando ciò che accade sul palcoscenico e ciò che accade in platea diventano tutt’uno. Noi non siamo né registi né artisti, per questo ci poniamo il problema di essere nel mezzo tra l’artista e lo spettatore. Sono convinto che questo festival abbia la necessità, sempre di più, di diventare popolare e riuscire ad abbattere quella barriera secondo cui la scena contemporanea non sia adatta a tutti. Bisogna che questo tipo di sguardi e pratiche debbano rientrare nell’attività ordinaria di un ente, bisogna arrivare al momento in cui la connessione tra “contemporaneo” e”popolare” sia presente in tutto quello che si fa, e credo che Ert stia lavorando per questo.
Discorso a parte andrebbe fatto sul "formato" degli spettacoli. Oggi è importante soffermarsi sul formato di ciò che viene proposto. Spesso le giovani compagnie sono bloccate in quanto credono di non avere la possibilità economica di affrontare il grande formato; ma questo è un passaggio necessario sia per gli enti che per gli artisti, verso cui i direttori dei teatri stabili dovrebbero avvertire più responsabilità.
Rispetto alla prospettiva e allo spirito dei tempi in relazione alla situazione italiana. Come e perché continuare ad occuparsi di teatro in questi tempi culturalmente "mortiferi"?
Penso che il nostro lavoro possa sopravvivere unicamente grazie alla consapevolezza di non avere delle certezze, sentire che il terreno sotto i piedi manca in tutti i momenti e fare in modo che diventi sempre più solido. Questo significa lavorare per stabilire situazioni e rapporti, senza lasciar scappare le occasioni che si presentano lungo il percorso. Costantemente.