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INTERVISTE > Claudia Castellucci, Homo Turbae
Nelle moltitudini si cela l’uomo che non può isolarsi. Costretto a vagare nella massa senza forma dell’umanità, ha il volto di tutti gli uomini: questo è l’uomo della folla. Le ombre che si proiettano su Homo turbae ricalcano le sagome scure  che si aggirano nelle notti cittadine e ci raccontano della spietata azione del tempo sugli individui, amalgamati in un fiume senza forma. Tra i fondatori della Socìetas Raffaello Sanzio, Claudia Castellucci si è dedicata negli anni alla drammaturgia, alla teoria del dramma e alla didattica. La recente nascita di Mòra è il naturale confluire delle esperienze maturate nel periodo di studio della Stoa, scuola sul movimento ritmico che l’artista ha condotto dal 2003 al 2008 presso il teatro Comandini di Cesena.


Qual è l’origine del nome della compagnia?

Il termine «mòra» ha un’origine metrica, è la definizione precisa di quello spazio di silenzio che è indispensabile per distinguere un ritmo. Un ritmo è un insieme in sequenza di battute, e per far sì che questo ritmo abbia vita è indispensabile che fra una battuta e l’altra vi sia un minimo spazio di silenzio. Mòra è il suo nome.

Lei ha condotto per cinque anni a Cesena la Stoa, scuola di movimento ritmico. Quale è stato il passaggio che ha portato alla fondazione della compagnia di ballo Mòra?

Ho voluto applicare lo studio del movimento fatto in questi anni con la Stoa, e farlo insieme a persone che hanno studiato balletto classico e si sono preparate per affrontare movimenti senza dubbio più complicati e più articolati rispetto a quello che era il nostro lavoro nella scuola. C’è stato un cambio totale di prospettiva, poiché nella Stoa non era importante la preparazione preventiva, anzi, vi partecipavano scolari provenienti da qualsiasi ambito: in questo stava l’interesse e la bellezza della scuola. Questa esperienza si è esaurita naturalmente, si sono concluse le relazioni, è terminato il piacere dello studio. Mi è rimasto il desiderio "trasferire" queste cose in una compagnia, lavorando però con artisti che hanno dedicato moltissimo tempo allo studio del gesto atletico. Marco Villari è l’unico scolaro della Stoa che fa parte di Mòra. Sono felice che ci sia, è un legame che testimonia la continuità tra Stoa e Mòra che consiste nella prosecuzione dell’indagine sul movimento nel tempo.

Per la creazione di Homo turbae sono intervenute tre «ombre»: da dove arrivano e cosa portano con sé?



La parola «ombra» indica qualcosa che si proietta su un lavoro già iniziato. All’origine del ballo c’è il movimento, costruito in questo caso sulla base solida, corporea della musica di Olivier Messiaen e sull’orchestrazione di Scott Gibbons. Durante i giorni di prova, mentre si costruisce il ballo e si compongono le sequenze di passi e di posizioni, ci manteniamo "aperti" per far sì che delle «ombre» - delle immagini, delle proiezioni di presenze - si affaccino sul nostro percorso attraverso nuove letture, nuove visioni e nuovi suoni. Tra le molte ombre che ci hanno fatto visita ne abbiamo scelte tre, tutte risalenti alla metà dell’Ottocento. Innanzitutto il racconto L’uomo della folla di Edgar Allan Poe, da cui in seguito abbiamo tratto il titolo. La seconda ombra è un acquerello dell’architetto Charles Robert Cockerell che rappresenta la città di tutte le città, quella che contiene gli edifici di tutte le capitali del mondo. Infine una filastrocca intitolata Old Adam Brown. E' importante precisare che le «ombre» non si collocano all’inizio della freccia creativa. Il lavoro non prende il via da un titolo o in base a un compito dato. Le «ombre» vengono dopo. Così, prima di tutto c’è stato il ballo, quello che è venuto dopo si è impigliato su movimenti già compiuti. Lavorare con le «ombre» indica anche un modo preciso di comporre il ballo.

Come riesce il movimento ritmico a conciliarsi, a descrivere e quasi a mimare la trama del racconto?

La parola ritmo indica qualcosa di molto complesso. In campo musicale e nel campo del movimento non è sufficiente l’utilizzo del ritmo inteso come metronomia, ad esempio. La maggior parte dei musicisti stessi, o per lo meno quelli che appartengono alla nostra area storico-geografica, utilizzano il metronomo. Eppure, come Olivier Messiaen stesso ha dimostrato, il metronomo non è sufficiente a delineare, a configurare, a spiegare che cos’è il ritmo. La metronomia è una sezione del tempo in parcelle esatte, ma la musica non è solo questo. Si avvale di questa parcellizzazione esatta e precisa, ma solo per poterla cavalcare e trasfigurare liberamente. Non è sufficiente essere precisi dal punto di vista aritmetico, bisogna veramente interpretare, esattamente come dei musicisti. Per quel che riguarda il discorso della raffigurazione mimetica di un racconto, è per noi interessante aderire a una storia, convogliarla più che descriverla in maniera illustrata. Quindi, se chiamo questo ballo Homo turbae, non significa che dovrò seguire l’andamento stesso del racconto. Anche qui, prima c’è il ballo e poi c’è il racconto. In un certo senso abbiamo davvero convogliato il racconto. A me piace che il ballo possieda qualcosa di concreto, qualcosa che si attacchi alla narrazione, senza essere però un racconto vero e proprio. E' possibile narrare senza raccontare? Io credo di sì.

Come ha scelto le musiche di Olivier Messiaen e come ha lavorato con Scott Gibbons per l’orchestrazione?

Mi sono imbattuta nell’opera di Messiaen, ho ascoltato tutto e poi mi sono concentrata sul suo lavoro per organo. Messiaen è un musicista gigantesco, è difficile poterne parlare in modo scorrevole. Per lunghi giorni mi sono intrattenuta con le sue composizioni per organo e ho capito che dovevo basarmi su quelle. Ho cominciato selezionando alcuni pezzi, in seguito mi sono attaccata alla musica con il movimento, cercando di essere “formata” dal suono prodotto dallo strumento. Questo è ciò che io ho proposto alla compagnia. Successivamente abbiamo visto che c’erano delle linee che esplodevano e agglutinavano altre linee. è così che si è formata la composizione. Prima di tutto, quindi, dall’incantamento dell’organo di Messiaen, che è qualcosa di enorme. Si pensi al fatto che in Italia solo in pochissimi posti si può eseguire la sua opera, perché i nostri organi sono antichi e non hanno l’estensione sufficiente per le sue tastiere. Questo per dire come il suo spettro tocchi dei registri di una vastità molto vicina alla totalità. Si va dallo squittio più sottile al suono basso che solo lo stomaco può udire, dal suono gentilissimo al suono che è un grido o una lotta. L’organo, così come lascia intendere la parola stessa, ha qualcosa di ombroso e proietta sulla vita del singolo tutta la gamma di sensazioni di cui è capace. Il lavoro Scott Gibbons si inserisce successivamente: è chiaro che la sua musica ha una fonte diversissima, che è elettronica, elettroacustica; anche il tipo di ritmo è molto più aritmetico. Gibbons ha cercato di riprendere un movimento a commento e a conclusione della prima parte, che è salda, incatenata, inesorabile. Nella prima parte non si può sfuggire, i ballerini sono sottoposti a una difficoltà estrema, parlo proprio dal punto di vista atletico: non c’è via di scampo a livello di fiato, il respiro è un tutt’uno, quasi un’apnea. Qui ci viene detto da che parte stiamo, ci viene indicato precisamente il luogo in cui ci troviamo. La seconda parte invece si pone in dialettica con la prima, c’è più respiro: si entra allora nel meandro della città.  

di Alessandra Cava


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