Daniele Albanese è un danzatore e coreografo emiliano, fra i pochi che con ostinazione ricercano un personale linguaggio. Dopo studi e collaborazioni all'estero, è tornato in Italia nella sua città, Parma, e ha fondato nel 2002 la compagnia Stalk. L'abbiamo incontrato in occasione del festival Vie 09, in cui Albanese era presente con una sua creazione.
A Modena presenti In a landscape, un pezzo inizialmente previsto per uno spazio urbano, in cui citi come punto di partenza il “vento”...
In a landscape nasce da una commissione. Quando l'ho riproposto, in altri contesti sempre urbani, ho modificato la struttura per adattarla all'ambiente. Si tratta di un lavoro che muta in relazione allo spazio che lo contiene, come a Modena. Qui mi trovo in un corridoio con un pavimento in cemento. Il vento è per me un motore, un appiglio molto forte che ho utilizzato nel processo creativo. Non penso sia importante che chi guarda riconosca questo stimolo. Siccome lo spazio era urbano, volevo confrontarmi con l'idea di un elemento che "muove" ma che a tutti gli effetti non si vede. Lo spettatore non riconosce la causa del movimento, che resta invisibile, ma si trova in presenza dei suoi effetti. Il vento è fra l'altro un simbolo molto "concreto", che mi ha aiutato a fissare la partitura in modo non troppo netto, non strettamente "coreografico". C'è una struttura riconoscibile che lascia ampio spazio a un margine di apertura.
Questo è un modo di procedere per te comune?
Sì, cerco di definire dei “campi di forze”, delle tensioni che mi guidino nello spazio, per questo il movimento non potrà mai essere identico di replica in replica. Definisco delle direzioni, dei "dati" a cui mi aggrappo per andare in scena. Lavorare in questa maniera mi ha sempre interessato: fisso ma non fisso mai tutto. Tornando a In a Lanscape, il simbolo del vento penso esalti tale mia maniera di procedere, verso un'imprevedibilità, una continua mutazione.
Nei tuoi lavori s'intravede una dimensione sospesa fra un interno e un esterno, fra uno spazio intimo o addirittura "domestico", e lo spazio aperto di un corpo che si espone, che si offre nella sua astratta superficie
In questo pezzo indosso jeans, maglietta e occhiali da sole. Il mio è un abbigliamento comune. Mi concentro sull'essere umano nella sua quotidianità, e su tutto quello che ha dentro di turbato o disturbato. Presento quindi una situazione comune, che però si trasforma. Mi soffermo su tale condizione, comune ma piena di tensioni nascoste, perchè la vedo spesso intorno a me. Per quanto riguarda il movimento mi accorgo di sostare su una linea che spesso tramuta delle linee geometriche in azioni comuni o "intime", e viceversa. Spesso parto da semplici sensazioni, che lentamente diventano movimento. Probabilmente è per questo motivo che il rapporto fra “corpo interno” e spazio mi porta a fare continui passaggi: a una direzione visibile nello spazio corrisponde una mia azione interna, un mio modo di "segnare" l'interno. Per fare due esempi in questo caso "visibili", spesso mi porto le mani alla testa, o accarezzo una parte del corpo... azioni comunque collegate a precise direzioni che poi prendo nello spazio. Questo è un discorso centrale, se penso alla composizione di un pezzo. Le parti del corpo tendono per me a diverse direzioni nello spazio, così come le direzioni creano una serie di sensazioni che producono “catene di movimento”. Fissati questi due elementi primari, la sensazione o la direzione, sento di avere già quasi tutto. Ad esse mi aggrappo per ricordare una partitura, perchè se invece fissassi tutto, facendo il “coreografo” di movimenti, mi annoierei a morte! Preferisco fissare altri tipi di partiture pensando al corpo come medium e al movimento come risultato visibile di questo processo.
Tu parli di “frammenti di personaggi”. Effettivamente Jeans, maglietta e occhiali da sole spingono già naturalmente a leggere una storia, o appunto a intravedere un personaggio...
Solitamente parto da delle “cornici” di varia natura che lentamente strutturano il lavoro. Si può trattare di una partitura musicale, di un'idea spaziale, di un'intuizione sui costumi. Spesso procedo per negazione, se mi rendo conto che un determinato movimento non può esserci lo escludo. Mi impongo un "range", una zona di possibilità molteplici, e lì indago e definisco per esclusione. Non parto da un “tema”, per poi verificarne gli esiti finali, ma metto assieme vari "temi" che si organizzano e producono un risultato, che fra l'altro non sento mai di avere totalmente sotto controllo. Dentro allo stesso spettacolo accade che passi da frammenti di personaggi fra loro diversi, dove i costumi rappresentano delle icone che evocano per me e per chi guarda sensazioni differenti. Uso la parola frammenti perchè in ogni caso non si tratta di personaggi definiti in modo netto. La danza implica una fuga dal netto.
In Only You, che era inserito nella programmazione di "Teatro Errante", è evidente una forte tensione di apertura, in cui molteplici sono i rimandi a uno “stato dei tempi”. Usi termini come noia e apatia, in scena le figure “stanno” e si trascinano, sul fondo campeggia una fila di bottiglie vuote di vodka. Lo trovo un lavoro ruvido, che provoca "fastidio" in chi guarda, costretto ad assistere a uno stallo che pare senza prospettive..
Siamo partiti da una situazione di noia perchè la riconosciamo intorno a noi. Forse questa apatia è proprio una delle cifre dell'oggi, questa incapacità di relazionarsi, questa “non speranza”. Nella fase iniziale del lavoro facevamo pochissime cose in scena, ci piaceva “non fare niente”. Abbiamo cercato di capire cosa conteneva tale noia, e ci siamo soffermati su una serie di parole chiave per noi centrali. Fatico a valutare questo lavoro. A volte penso che descriva fin troppo la situazione di oggi, forse in maniera troppo diretta. La scena è molto semplice, volutamente non infiocchettata. In alcune occasioni lo spettatore si è rispecchiato e immedesimato nel lavoro creando una forte comunione con noi in scena, in altre si è trovato a disagio, forse per una mancanza di chiavi di lettura. O probabilmente la sensazione di "realtà" troppo spinta ha fatto si che l'incomunicabilità studiata nello spettacolo si sia rovesciata nel rapporto con il pubblico. E' ad ogni modo un lavoro su cui intendo ritornare e per il quale è necessario pensare la giusta cornice.
Concludiamo con una nota più generale. Ti sei formato all'estero ma sei fra quelli che ha deciso di tornare. Come vivi il momento attuale, relativo alla danza d'autore nel nostro paese e nella nostra regione?
Fino a qualche mese fa avrei risposto in questo modo. Avrei detto che è molto difficile che un certo tipo di ricerca trovi spazio, e che questo provoca una sorta di emarginazione. All'estero è difficile tanto quanto in Italia, con la differenza che a Bruxelles, per esempio, nei festival piccoli e grandi c'è un pubblico attento e preparato, e gli spettacoli sono sempre esauriti. Relativamente all'Italia fatico a comprendere le scelte di chi è responsabile delle programmazioni. Spesso la danza viene trattata come l'ultima delle arti, quando in realtà c'è un pubblico interessato e in crescita. Spesso la danza rimane in ambiti molto specifici, in circoli tutto sommato autoreferenziali. Questa annotazione, solitamente, viene rovesciata sugli artisti e diventa una critica. Veniamo accusati di essere autoreferenziali, quando il contesto in cui siamo chiamati ad operare già di per sé è piccolo, e non è adatto a spettacoli “popolari”. Credo che sia necessario allenare la visione, in un momento come questo non trovo nulla di sbagliato nel proporre lavori che richiedano una certa capacità di lettura, un allenamento. Il vero problema è che questi lavori restano confinati in ambiti stretti. Meglio sarebbe se questa “forma d'arte senza forma” fosse il più visibile possibile. Dicevo che ti avrei risposto così fino a qualche tempo fa. Tutte queste cose le penso ancora, anche se al momento attuale mi sento in una fase di sospensione. Quello che sta succedendo ora non lo capisco del tutto. Spesso ho la tentazione di andarmene dall'Italia, e forse lo farò. Io cerco comunque di lavorare al meglio, per me, anche a patto di non andare in scena per otto mesi. Sto cercando di non farmi influenzare dalle ristrettezze economiche, da un circuito che non esiste, da operatori che si conoscono tutti. Cerco di fare in modo che tutto questo non influenzi il mio lavoro.
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