Si apre la scena. Una coltre di nebbia lentamente rivela una gelida stanza dal gusto moderno. Un bianco grigiore domina l’ambiente, dal quale emerge la figura di una donna seduta su un sofà nero. In un indefinito presente, Thomas Ostermeier trasforma i personaggi del John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen in grottesche figurine da soap opera, mettendo in mostra le accecanti ossessioni che sostanziano la banalità in cui affoga il loro vivere quotidiano. Con questo spettacolo Ostermeier presenta il suo ultimo incontro con la drammaturgia dell'autore norvegese, un percorso che ha segnato una cesura rispetto alle scelte registiche che lo hanno reso celebre sul panorama internazionale come un artista capace di far esplodere sul tavolo anatomico della scena il violento rimosso dei testi classici. Forse può rimanere deluso chi, conoscendo la fama di regista trasgressivo e perturbante che da sempre lo precede, si trova ad assistere a un “Borkman” in cui la glaciale convenzione borghese è rotta da isterie che evocano il patetico, ma che non sono sintomi dell’esplorazione di un abisso. E il pubblico ride, ride di Borkman, della moglie, della sorella, del figlio, ride di questi personaggi a cui non è stata concessa l'ambiguità originaria, ma che tornano a noi come ridicoli figuranti di una borghesia che va alla deriva nel suo dramma famigliare. Nei vapori della tormenta di neve naufragano i componenti della famiglia Borkman, abbandonati alla loro miseria: un dramma che nella scelta del regista va al di là della realtà sociale in cui sono (e siamo) immersi, e ci lascia disillusi, o forse col desiderio frustrato di scorgere le contraddizioni che li incatenano alle loro ossessioni e al loro tempo. Di fronte a noi invece solo un’algida parete trasparente. E dietro, la bufera