Al centro sta l’attore, solo. In piedi, scalzo, con un vestito che pare dissotterrato dalla sabbia di millenni, mastica parole, in una coazione a ripetere che lo costringe, il corpo immobile in tensione. Lo stillicidio di una goccia che continuamente cade sulla sua testa scandisce il tempo. Attorno una teoria di sedie di legno con sopra adagiate travi di ferro bruno, l'opera di Kounellis. Sei figure nerovestite, tre per parte, osservano impassibili: il loro canto scandirà il dramma. Dai suoni slogati emergono parole. L’attore cita il testo di Michaelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, folgorante saggio filosofico sulla insensata ostinazione a vivere che, dietro le maschere, muove la nostra esistenza. Lo strappa alla Trieste di inizio Novecento per riportarlo al cuore dell’antica tragedia del divenire, ridonataci nel greco antico di Eraclito ed Eschilo dal regista Terzopoulos che, seduto in prima fila tra il pubblico, con trasporto risponde al disperato oracolare di Paolo Musìo. Trasformata in oracolo, della parola di Michaelstaedter cosa rimane? Di un testo che è di una crudele lucidità, che smonta l’ipocrisia della “rettorica” portando la logica alle sue estreme conseguenze, cosa si comprende di tutto questo se la parola si dissolve in un disperato rituale? Tanto più che a noi testimoni è dato di partecipare al rito solo da spettatori, assistendo in silenzio allo ieratico ripetersi del sempre uguale, metafora estrema del senso di quest’opera. Opera che forse avremmo preferito attraversare, cercando ognuno, col proprio tempo, la risonanza con quello spazio, con quelle parole. Invece seduto in platea c’è solo un testimone, officiante e iniziato, a un tempo: gli altri sono spettatori, profani al rito, esclusi.