Fino a che punto un cittadino ha il dovere di interrogarsi sulla ricerca della verità? E, posto che lo voglia fare, fino a che punto potrà avvicinarsi ad essa? Being Harold Pinter è uno spettacolo che c'interroga sul rapporto tra linguaggio dell'arte e realtà politica, sul problema della ricerca della verità a teatro e nella vita quotidiana di un cittadino. Il Belarus Free Theatre sceglie di intessere alcuni dialoghi di Pinter con le parole del suo discorso in occasione della consegna del Premio Nobel 2005, e con testimonianze di prigionieri politici della Repubblica bielorussa. E' un narratore, una sorta di corifeo, a riportarci le parole del drammaturgo inglese, alternando aperture su scenari di brutalità a digressioni che riflettono sulla nascita di un testo teatrale, sul modo di fare teatro analizzando il linguaggio della politica, sul compito di un artista "intellettuale" che si assume il compito di definire la verità.
Del corpus drammaturgico di Pinter vengono montati insieme alcuni incipit di dialoghi: Il ritorno a casa e Vecchi tempi, che popolano la scena di ombre provenienti da ansiogeni interni domestici dove i discorsi sfociano in violenza, o procedono sul filo della menzogna e della non comunicazione; Ceneri alle ceneri, Il bicchiere della staffa e Il linguaggio della montagna, nei quali sono centrali i temi della verità e della violenza, due fili rossi che percorrono tutto lo spettacolo. Spettacolo mosso da una palpabile urgenza, da una necessità evidente, quella di ri-portare lì sulla scena la violenza, di mostrarla agli occhi dello spettatore. Tutto ciò avviene attraverso modalità molto semplici e dirette: senza mediazioni, rivolgendosi direttamente al pubblico, con toni quasi giornalistici. Il teatro diventa un mezzo per documentare una situazione di sopruso, dolore, silenzio, repressione. La donna di Ceneri alle Ceneri racconta di violenze subite e bambini strappati alle madri, e la sua voce si strozza in una risata di disperazione. Intanto un uomo, il suo compagno, tenta di strangolarla. Un altro uomo, il torturato de Il bicchiere della staffa, viene denudato in scena e sottoposto ad un rito di castrazione da parte del torturatore, che veste gli abiti di un sacerdote ortodosso e ha la bocca protetta da una mascherina. E infine, al buio, viene gridato in un megafono il discorso dell'ufficiale de Il linguaggio della montagna, nel quale viene proibito ad un gruppo di persone di parlare nella propria lingua. Qui la questione della minoranze che resistono a regimi repressivi si riallaccia alla situazione della Bielorussia odierna: a questo punto dello spettacolo intervengono i racconti dei prigionieri politici, che dalla finzione teatrale riportano alla realtà.
Gli occhi di Pinter stanno sul pannello di fondo, in una fotografia spezzata in due parti, mentre in scena gli attori vengono ingabbiati dentro un telo di plastica dal quale cercano invano di liberarsi e sulla cui superficie impermeabile si vanno ad infrangere i loro volti, le loro bocche, le loro mani e anche le loro parole. La gabbia plastica come segno di una libertà di parola negata, forse la parte dello spettacolo in cui gli attori bielorussi non stanno più solo recitando Pinter, ma la loro stessa condizione di intellettuali che trovano nel teatro una modalità di denuncia contro un regime di dittatura. Perché, come dice il drammaturgo inglese, « la ricerca della verità non può fermarsi mai. Non può essere rinviata, non può essere posposta. Occorre affrontarla, proprio in tempo reale».
Stefania Donini