Hai parlato di tragicomico. É questo il vostro sguardo sulla realtà?
Abbiamo sempre avuto un interesse spirituale nei confronti della vita, rispetto a un senso ulteriore del nostro stare qui, del vivere gioia e sofferenza. Questa riflessione spirituale si è poi fusa con l’attitudine della figura del clown, in grado di restituire con comicità e leggerezza tutti sentimenti di confusione e tristezza. Circhio Lume, il nostro ultimo spettacolo, è realmente l’incontro di uno sguardo comico sul dramma e di questa attenzione al suo senso spirituale. Siamo partiti dall’idea che nell’arte, e nel teatro, ognuno ricrea una situazione di dolore, facendo però il possibile per mantenersi vivo, per riconfermare il suo posto nel mondo. Partiamo dal presupposto che sia molto più difficile sostenere la forza della gioia, che non ragionare su una condizione di sofferenza. Ci piace indagare le zone che mendicano un’esistenza propria da parte di uno sguardo esterno.
A quale immaginario comico fate riferimento? Seguite delle figure precise?
Diciamo che non ci sono ispirazioni consapevoli, ma sicuramente subiamo molto le influenze dei grandi clown: Charlie Chaplin, Totò, Buster Keaton… Ci rivolgiamo alla comicità perché desideriamo trattare il dolore e la sofferenza sgravandoli del loro peso. Più andiamo a fondo più cerchiamo di tirare verso l’alto la materia che stiamo trattando. Non vogliamo consegnare dei pesi ulteriori al nostro pubblico, non avrebbe senso.
In Circhio Lume molti ci dicono che ridono e piangono allo stesso tempo. Questa è la zona che vogliamo indagare, questo stare in bilico tra il tragico e il comico. Per far ridere devi andare in fondo al dramma, e poi, attraverso un processo di non identificazione, prendendo distanza dall’oggetto, lo superi e riesci a far emergere l’aspetto ridicolo del dramma che stai modellando.
Entriamo nel merito di Circhio Lume: come si snoda nello spettacolo quest’idea di comicità? Da quali altri spunti siete partiti?
Tutto è nato dall’idea che io, Aldo e Antonio Vallella prendessimo posto in un luogo, uno spazio nel quale giocare ciascuno il proprio dramma. Nel momento in cui il faro illumina l’attore che abita la scena, questi cominciava a fare il suo show. Lo spazio è circolare, delimitato da uno schotch sopra un tappeto di linoleum. Là dentro si giocano le azioni più umane, più vicine a noi come persone, mentre il fuori rappresenta un altro luogo, un mondo in penombra, dove si realizza uno ‘stare a lato’.
Lo spettacolo assume la figura del cerchio come struttura, e si dedica invece alla tematica dell’errore, del fallimento. Il titolo stesso ha origine da un refuso: volevamo scrivere “cerchio” e abbiamo sbagliato, ma ci è sembrato opportuno mantenerlo così. L’errore, il fallimento, il tentativo che non giunge mai a risolversi in un’azione finale, questi sono stati i temi a cui ci siamo appoggiati per far esistere, attraverso l’insistenza e la tenacia di raggiungere un risultato, i nostri personaggi.
Siamo partiti stabilendo per ciascuno un colore, un tema e un’azione, che dovevamo poi sviluppare singolarmente. L’azione doveva svolgersi nel tentativo di applicarla ma senza risolverla mai. Più tento di fare una cosa e meno ci riesco, ma ci provo numerose volte lo stesso. La ripetizione, la manifestazione di voler raggiungere un obiettivo senza però riuscirci scatena nello spettatore una sorta di commozione, di vicinanza. Perché in realtà questi personaggi sono delle vittime, ma in senso ordinario, quotidiano, degli imprevisti di tutti i giorni. È come quando un bambino impara a camminare, e cercando di stare in piedi cade e cade ma continua a rialzarsi.
La comicità credo che nasca dal fatto che siamo noi stessi a costruire la ripetizione di questo piccolo dramma. Svelarlo al pubblico è liberatorio e fa ridere: ogni spettatore coglie la verità di una cosa che gli succede, ma ne rimane distante, potendone così percepire quell’aspetto risibile che è presente in tutte queste occasioni.
Pensate di aver intrapreso una strada del teatro popolare? Vi sentite vicini a questa definizione?
Siamo stati di recente a un convegno sul teatro popolare, e la giornata si è conclusa dicendo che non esiste una definizione di questa possibile categoria. Ma se ci riferiamo solo a un principio di accessibilità, di arrivare al pubblico senza un’esigenza specializzata di studio per inserirsi in una creazione autoreferenziale, allora posso dire che, per un sentire personale, la nostra compagnia ha sempre portato avanti il desiderio di entrare in comunione con gli spettatori. Un desiderio di comprensione forse no, ma sicuramente ricerchiamo una vicinanza. Gonzago’s era uno spettacolo abbastanza facile, se così si può dire, perché aveva una storia. Circhio Lume è più complesso, non ha una narrazione unica e lineare; abbiamo cercato soprattutto di allontanarci da possibili personalismi, per il fatto che ci siamo basati molto su esperienze interiori.
Anche qui interviene il passaggio a una cornice comica, all’interno del quale è possibile inscrivere tutto: sofferenza, smarrimento, ma anche cose più banali, meno ricercate. In queste c’è forse il rischio di ammiccare, anche se il nostro tentativo rimane un’innocenza, una leggerezza che nasce da una considerazione non troppo seria di se stessi. Non prendersi sul serio è un modo per mantenersi distanti, per potersi accorgere che le cose si muovono anche da sole, senza di noi.
Avete cominciato a lavorare a nuovi progetti?
Da poco, è meno di un mese che lavoriamo a uno spettacolo che ragiona sul tema di un paradiso impossibile. Anche qui abbiamo perseguito la strada della non identificazione, per uno smascheramento dell’identità che ci portiamo addosso, per liberarci da tutte le etichette. Debutteremo alla rassegna bolognese “Tracce di teatro d’autore”, e anche in questo lavoro si ritroverà la medesima comicità di Gonzago’s e Circhio Lume, la stessa leggerezza di cui tutti andiamo in cerca.