Si chiude oggi la sesta edizione del Festival Vie, che ha portato a Modena oltre venti compagnie tra formazioni nazionali e internazionali. La formula di Vie, una vetrina che accosta nomi importanti della scena nazionale, compagnie internazionali e nuove proposte della ricerca, dà il segno di un progetto culturale teso a far dialogare i diversi livelli (soprattutto produttivi) della scena contemporanea – una vocazione importante e condivisibile per un evento ideato da un soggetto pubblico come Emilia Romagna Teatro. Più in generale, però, è forse giusto porsi delle domande sulla funzione dei festival oggi, nel 2010, in tempi di feroci tagli alle politiche culturali e dopo un decennio in cui le occasioni festivaliere sono proliferate anche fino all’eccesso.
È ormai chiaro che sono queste manifestazioni a dare ossigeno e visibilità al nostro teatro contemporaneo, che difficilmente ha accesso alle stagioni degli stabili (compresi quelli di innovazione). È allora sempre più urgente, persino indispensabile, che queste manifestazioni abbandonino la politica delle quantità, dell’abbuffata, e delle prime assolute, che costringono le compagnie più deboli a un processo di iperproduzione che non sono in grado di sostenere, e che spesso finisce per esaurire la creatività degli artisti più giovani. Certo, tutto questo è impensabile se gli assessorati, che tengono i cordoni della borsa, continuano ad esigere numeri, in termini di programmazione e pubblico, inseguendo una politica degli eventi che, in fondo, presuppone un’arte di corte, che distragga e non faccia pensare.
È ora che il nostro paese si doti di centri di eccellenza artistica in grado di sostenere i percorsi degli artisti che, fuori dal coro dell’intrattenimento, ancora cercano di indagare i linguaggi per produrre bellezza. Questa piccola rivoluzione potrebbe partire proprio da una nuova concezione dei festival.