Ci introduce il programma di Vie 2010?
Il programma di quest'anno ha una struttura più complessa rispetto a quello del 2009, presenta degli "ostacoli" in più per gli spettatori. È un programma aperto, che vuole contenere tanto ma nello stesso tempo restituire molto, che richiede un'adesione ma nello stesso tempo lascia molta libertà. Abbiamo scelto di inserire quattro eventi nello stesso giorno per costringere lo spettatore ad entrare nel merito del programma e a fare una scelta. Dietro a nomi forse meno noti spero si possano rivelare sorprese per gli spettatori. A Vignola presentiamo 1974 di Massimo Furlan, uno spettacolo musicale che ha la leggerezza di una performance, mentre a Carpi saranno in prima nazionale i Rimini Protokoll, con i loro temi legati all'attualità. Per noi è importante instaurare un rapporto nel tempo con gli artisti. Prendiamo l'esempio dei Belarus Free Theatre, che iniziano domenica e finiscono martedì: abbiamo pensato a loro come a un gruppo che si deve radicare in questo territorio incontrando il più possibile il nostro pubblico, anche considerando l'incredibile successo che è stato loro tributato l'anno scorso. A San Damaso è presente il Teatro delle Ariette, una formazione che ha un rapporto molto positivo con le comunità nelle quali presenta gli spettacoli. Abbiamo creato uno spazio all'interno di un tendone da circo, un modo per attirare l'attenzione in un luogo dove abitualmente il teatro è poco visibile. Quest'anno per la prima volta abbiamo un piccolo spettacolo per i bambini, e anche questo è un segnale: ormai la generazione di quelli che dieci anni fa venivano a Vie è cresciuta, ha i propri bambini e venire a vedere Nicole & Martin è un'occasione per tornare al festival e nello stesso tempo per "insegnare una strada" ai loro figli.
Nell'editoriale è stata data un'indicazione tematica solitamente non presente a Vie: la questione della libertà individuale, la libertà dei popoli e altri nodi "sociali". Quale immagine sul mondo viene dal teatro e in che modo il teatro sta cercando di raccontarlo?
Scorrendo i titoli ci siamo resi conto che il tema della libertà e dei diritti civili era presente in quasi la metà degli spettacoli, in evidenza o più sottotraccia, come per esempio nel lavoro di Galin Stoev.
Black Tie dei Rimini Protokoll presenta la vita di una persona sradicata dalla sua realtà e portata in un altro paese, che un giorno decide di andare in cerca della sua identità.
Eurepica, dei Belarus Free Theatre riflette sull'Europa e sulle difficoltà politico-economiche che sta passando questa macro nazione. Antonio Latella parte dal fondamentalismo, per poi mettere al centro Simon Weil. I Motus con Alexis, ultima tappa del lavoro sull'Antigone, parte dalla morte di un ragazzo ad Atene durante le proteste di piazza. Sono tutti nodi legati agli anni che stiamo vivendo, temi sui quali non abbiamo lavorato dall'inizio ma che ci siamo sentiti in dovere di esprimere, visto che sono presenti in molti spettacoli del festival.
Dal programma sono evidenti le relazioni con gli artisti, quelle già in atto e quelle che si sono aperte. Per noi le relazioni diventano legami forti, sia con la nostra struttura sia con il pubblico. Quest'anno tornano Burrows & Fargion, che dopo essere stati presenti per due edizioni consecutive, tutti hanno imparato a conoscere. È fondamentale poter seguire gli artisti, e che si possa vedere da vicino la loro traiettoria nel tempo. Non siamo abituati a proporre artisti che non conosciamo.
Una doppia vocazione, quindi, internazionale con Prospero e locale con i gruppi italiani e regionali...
Sì, questa è la direzione che vogliamo perseguire. Vorrei però parlare di tale aspetto sostando sul gruppo Menoventi, che farà con noi una nuova produzione all'interno del progetto Prospero. Gianni Farina è stato ora un mese e mezzo in Belgio per lavorare con Galin Stoev, che presentiamo al festival quest'anno. La scelta di un gruppo come i Menoventi è un'indicazione su come vogliamo lavorare: ci prendiamo un rischio, un rischio reale che forse nemmeno i Menoventi sono in grado di comprendere appieno. Non si tratta di invitare un giovane gruppo a presentare uno spettacolo alle Passioni, ma di costruire una relazione, di seguire insieme un progetto fino a che non diventa autonomo, fino al momento in cui il gruppo non avrà raggiunto la capacità di "contrastare" questo sistema teatrale. Prospero quest'anno porta due titoli al festival: uno è Quai Ouest di Rachid Zanouda, l'altro è La vita è sogno di Calderon, con la regia di Galin Stoev, un regista che mette al centro il lavoro dell'attore, che lavora sulla creazione di una drammaturgia, su un testo, e sul corpo dell'attore. Questo modo di affrontare i classici fa parte del percorso di Prospero, che continuerà fino al 2012.
Vie presenta due lavori del Workcenter of Jerzy Grotowski and Tomas Richards, esempi di una tradizione in atto solitamente poco visibile...
Attorno al Workcenter c'è sempre stata poca apertura, anche le aperture periodiche sono sempre state a inviti ristretti, fatto che reputo importante per la giusta tutela che si è voluta dare al lavoro.
Oggi noto, da parte loro, un'esigenza di incontrare persone anche diverse, sconosciute. Mi sembra un dato molto importante, in questo modo si rende fruibile al mondo del teatro un percorso rigoroso, un percorso che oggi è alla ricerca di un mutamento. probabilmente.
Lo scorso anno avevamo portato a Modena una mostra dedicata a Grotowski, che io avevo visto in occasione del Premio Europa per il Teatro a Wroclaw. Quest'anno il Workcenter arriva con due spettacoli completamente diversi l'uno dall'altro. The Living Room di Thomas Richards è allestito al Teatro Storchi, lo stesso dove nel 1990 il maestro polacco organizzo l'incontro dal titolo "La presenza assente". Grotowski rimase tutto il tempo in un palco ad ascoltare, non si fece mai vedere, come voleva il titolo della giornata. Con lo spettacolo di Richards si chiude un cerchio rimasto aperto per vent'anni.
In una frase del suo editoriale leggiamo la seguente affermazione: «I cittadini si formano a teatro». Perché è importante questo teatro, quello che Vie da sempre ricerca?
Il teatro contemporaneo impone a chi guarda una scelta, tutte le cose nuove sono il frutto di una scelta. È importante che lo spettatore si renda conto di essere uno spettatore. Fondamentale è vedere le cose, anche se non si ha la certezza che quello che si vedrà sarà importante: non ci sono mai serate perse, al limite spettacoli che gradiamo o che non gradiamo, artisti che ci interessano e altri che ci interessano meno, ma per comprendere questo occorre andare a teatro. Si tratta di saper leggere, di essere presenti e di cercare di capire dove si è. Il contemporaneo non è uno sguardo dritto di fronte a sé, ma un guardare un pò "di traverso". Nostro compito è quello di individuare quegli artisti che ancora riescono in questo.
Il lavoro di trasformazione della tradizione porta al nuovo. Chi legge la tradizione sempre nello stesso modo diventa lentamente inutile: si deve trovare la strada per riproporla in modo completamente diverso, originale, in modo che qualcosa accada, che ci sia una crescita.
Il contemporaneo cerca spazi diversi dal tradizionale, ha compreso che deve esserci una stretta relazione fra la vita delle persone e l'arte stessa, mentre spesso il teatro tradizionale resta distante.
Come istutizione abbiamo il dovere di far crescere i nostri spettatori. Credo molto nell'apertura, nella curiosità, nel divertimento, tutte cose che ci devono accompagnare nella vita quotidiana come nel teatro.
Idee che nella società attuale, in cui i ministri dichiarano pubblicamente che "la cultura non si mangia", appaiono non di facile applicazione...
Tagliare la cultura è un po' come tagliare la civiltà. Tagliare la cultura vuol dire rinchiudere ognuno nelle proprie case, isolarli davanti uno schermo, quando va bene una briscola con gli amici. Voglio però anche dire che in un momento di crisi come questo la gente continua a venire a teatro, grazie anche a una generazione di insegnanti che dagli anni ‘70 ha dato a questo linguaggio una funzione importante.
Una delle sfide odierne, per l'arte e per il teatro, sta nell'avvicinare i nuovi cittadini: abbiamo sempre più persone che non appartengono alla nostra cultura, e che vanno avvicinate trovando linguaggi adatti. Per esempio i cittadini che vengono dall'Est hanno una grande cultura rispetto al teatro, eppure non sono abituati a frequentarlo perché lo vivono come luogo ostile, in cui non sono accettati. Questa diffidenza va superata, va trovata una strada per abbattere tali barriere.
Tornando alla domanda, dobbiamo ricordare la recente chiusura dell'ETI, dichiarato «ente inutile». L'ETI è per noi stato un compagno di strada, con il quale era normale anche litigare, per arrivare infine a collaborare su molti progetti. Oggi per i gruppi giovani sarà molto più difficile entrare in contatto col teatro straniero, e soprattutto non avere più un ente a cui fare riferimento.
Giulia Tonucci
Alice Moro