La tua è principalmente una formazione d’attore. Quali sono state le tue prime esperienze di regia?
Come attore mi sono formato alla scuola del Théâtre National de Bretagne, dal 1994 al 1997. In seguito ho lavorato con diversi registi, tra cui Matthias Langoff e Jean-François Sivadier. Sono già stato in tournée Italia, con Langoff allo Stabile di Genova, dove abbiamo messo in scena Il revisore di Gogol. Sentivo il bisogno di fare un'esperienza personale di ricerca e così, con due attori miei amici, Vincent Guédon e Anne de Queiroz, ho creato un gruppo di lavoro. La formazione iniziale si è poi allargata ad altri attori: Quai Ouest è il terzo spettacolo a cui lavoriamo insieme. Il primo utilizzava diversi testi che avevano come soggetto il rapporto tra il singolo e la società. Poi abbiamo allestito La conquista del Polo Sud di Manfred Karge, che affronta il tema della disoccupazione. Con una piccola compagnia di San Vito al Tagliamento, in Friuli, ho partecipato nel 2001 al festival Binari-Binari (che oggi non esiste più) per il quale ho diretto due testi di Koltès: La notte prima della foresta e Nella solitudine dei campi di cotone. Quai Ouest chiude la trilogia.
La presenza attorica è molto forte in Quai Ouest, tanto credibile che non si distingue il confine tra la creazione individuale dell’attore e l’intervento registico. In che misura gli attori hanno avuto autonomia di creazione?
Lo spettacolo è sempre costituito da una combinazione di quattro dimensioni: l’autore, l’attore, la scenografia e tutti gli apparati scenici, il regista. Quest’ultimo non può da solo fare la parte degli altri tre elementi: il teatro è un lavoro di condivisione. L’idea di mettere in scena Quai Ouest è partita da me come una proposta agli attori. Alla prima lettura il testo sembra una semplice storia di cronaca ambientata in una periferia: per tirarne fuori la filosofia e la poesia è stato necessario che gli attori si interessassero personalmente all’argomento. Quando metto in scena un testo, il primo periodo di prova consiste nell’incontrare gli attori per sei ore al giorno, fuori dalla scena, con lo scopo di discutere e condividere ogni tipo di materiale. Si va avanti così finché tutti raggiungono lo stesso livello di preparazione documentaria, sviluppando e conservando un pensiero personale sulla questione. Un gruppo è fatto di molte particolarità: lo stesso libro diventa un libro diverso nella testa di ogni persona. Ci tengo che tale aspetto si avverta sulla scena, l’identità dell’individuo che recita deve essere più forte di quella del regista. È molto importante che lo spettacolo appartenga agli attori: io non racconto la mia storia, racconto la storia della società occidentale.
Nonostante questo si nota una omogeneità di fondo nella recitazione, che pare restituire al meglio la musicalità del testo di Koltès, una cascata di parole che ha un ritmo e un suono molto preciso.
Il mio lavoro principale ha puntato a far sì che gli attori prendessero confidenza con il respiro dell’autore, con la poesia, la filosofia e l’urgenza sociale che Koltès è in grado di fondere insieme. Nessuno di questi aspetti è più forte dell’altro. In Quai Ouest i due personaggi principali si incontrano nella solitudine e sanno esattamente quale sarà la fine, ma la vera bellezza è nel tentativo, anche e soprattutto quando è vano.
Passando all’aspetto visivo, la prima cosa che viene in mente osservando la successione delle scene è una pellicola cinematografica che scorre sul boccascena. Anche grazie all’uso dell’illuminazione, che costituisce una vera e propria scelta poetica.
Mi chiedevo come rendere in scena un luogo che tutti noi immaginiamo buio e sporco come la periferia di una grande città, luogo che invece aveva attratto Koltès per la sua carica poetica. Ho deciso così di utilizzare una pedana rialzata che è come un pezzo di terra, il luogo della storia, sul quale bisogna salire per entrare nell’azione. Nelle didascalie Koltès si diverte molto, nello stesso modo in cui Fellini si diverte con il cinema: è capace di scrivere che il sole tramonta e poi sorge, di utilizzare espressioni come “muro di buio”, che è qualcosa che non esiste, ma che si può immaginare come uno spessore di nero che inghiotte le immagini. Era molto importante per me restituire in scena questo aspetto visionario. Lo spazio di Quai Ouest assomiglia molto a un’isola, dove la luce gioca e dove non si sa quale sia il percorso esatto dei personaggi. Credo che Koltès sia partito da quel luogo, ed è quel luogo che poi subisce il caos sociale della storia, fino a diventare uno spazio labirintico. Non ho voluto costruire l’azione con spostamenti logici, naturali, perché mi aspetto che lo spettatore abbia l’intelligenza di fare il proprio percorso. È esatto il riferimento al cinema. Le luci che ruotano e ritagliano spazi nel buio delimitano le zone dell’azione: ogni personaggio ha la sua storia e un rapporto particolare con l’lluminazione.
Tornando al discorso sulla regia, come ti poni rispetto al senso di della messa in scena del testo?
Mi interessa la classicità del testo di Koltès, il suo assomigliare a una tragedia greca. Cosa si può fare a teatro con un testo? Come si può rendere giustizia all’intelligenza del pubblico con in mano solo un testo? È possibile che il pubblico si interessi ancora alla letteratura, alla filosofia, alla poesia? Io credo di sì. Il classico è sempre contemporaneo e ha un potenziale molto forte.