Si riempie velocemente la grande sala imbandita nel Teatro Storchi: gli spettatori, abbandonati soprabiti e borse, vengono accolti dal gruppo di ricerca di Thomas Richards come fossero vecchi amici. Non più di trenta persone prendono confidenza con lo spazio, tazze bianche sul tavolino si offrono colme di bevande calde, e chi si avvicina alle poltrone ruba dai piattini acini di frutta fresca. Gli attori sono ormai confusi tra la gente e alimentano la discussione a ingannare il tempo. Tutto prende il via dal rapporto umano e la stanza vive di respiri, parole, sguardi. Ancora qualcuno s’attarda a conversare quando sottile un canto invade la stanza, ne prende coscienza lentamente chi è distratto dai suoni della strada, ma spontaneamente, a poco a poco, i ruoli si definiscono e chi si siede a guardare tace, mentre Richards annuncia il lavoro: invita il pubblico a lasciare libere le sensazioni, ad abbandonarsi nella ricerca di quei canali percettivi che possono collegare due presenze. Il flusso del canto continua, palpitante, ininterrotto, e i corpi dai muscoli vibranti si sbilanciano in movimenti sciolti, si flettono, vasi d’elezione di una natura più originaria. Le fisicità vengono guidate da sonorità antiche e si agitano a ritmo tribale secondo una ritualità segreta. Le mani alzano le braccia, più attratte dall’alto che spinte dal basso, le schiene inarcate da movimenti fluidi abbassano gli sguardi proiettati “oltre”. Nonostante l’intento generale sposti il racconto in secondo piano, considerandolo solo in quanto motivo di comunità, i canti tradizionali che compongono la performance realizzano la storia ancestrale della formazione del giovane, dell’iniziazione del singolo alla società. Nel viaggio educativo, interiore ed esteriore, il protagonista affronta il rapporto con la natura, con l’altro, violento, affettuoso, sensuale; solo dopo essersi sentito come parte del tutto può tornare in sé, e la natura lo riconosce, nel falco che spontaneamente gli si dona posandosi sulla sua spalla. Il vibrato delle voci lascia solo pochi attimi al silenzio proponendo ai timpani linguaggi contaminati, sconosciuti e familiari, scanditi da musicalità caraibiche, africane e blues. In questa messa in scena laica ogni particolare è teso a tracciare quei sentieri di una comunicazione più profonda: la fatica tremante, vocale e corporea, sempre in disequilibrio verso lo spettatore, gli sguardi persi nel vuoto, i ritmi arcaici che lo avvolgono, la rappresentazione naïve della crescita di ognuno; ma i canali sembrano comunicare solo internamente e il pubblico resta fuori, sulla poltrona barocca, a braccia conserte.