Due performance, un danzatore e la sua volontà di riduzione all’essenziale: un percorso sulla negazione come principio che, paradossalmente, diventa motore di creazione e affermazione di indiscutibile presenza. Il lavoro di Daniel Linehan sembra muoversi sul filo di un seducente nichilismo, in nome del quale la naturale necessità di un artista di trasmettere un pensiero attraverso la propria opera viene dichiaratamente scavalcata a favore di un’innocente ammissione di impotenza.
Montage for Three è una coreografia per tre interpreti, dove ad affiancare Linehan troviamo un’altra giovane danzatrice e un proiettore. Quest’ultimo acquisisce qui lo statuto di co-protagonista vero e proprio, non semplice elemento scenografico ma mezzo con il quale costruire una drammaturgia del movimento che ritroviamo impresso nelle fotografie mostrate. La memoria alla quale il media consente di accedere in qualunque momento e senza alcuno sforzo è il ricordo congelato nell’attimo dello scatto che trasforma in forma neutra, bidimensionale una storia in cui si sono susseguiti freneticamente nomi e avvenimenti importanti, conflitti e scoperte rivoluzionarie, fatta di arte e violenza, progresso e distruzione, dalla quale il coreografo attinge nel tentativo (riuscito) di estrapolarne la pura morfologia visiva. D’altra parte la necessità di opporsi al quotidiano e continuo bombardamento d’immagini a cui siamo sottoposti sospinge Linehan a sottrarsi dalla responsabilità di un’autentica proposta visiva, per realizzare un montaggio gestuale di citazioni dietro al quale rimanere anonimo e attraverso cui giocare l’interazione scenica tra presenza e assenza.
This is not about everything, invece, è un solo che intende negare qualsiasi aspetto al di là del fisico “qui e ora” del performer. In un’estenuante ripetizione delle parole del titolo, ma soprattutto attraverso una vorticante continua rotazione su se stesso, Linehan dissuade gli spettatori dall’attribuire qualsiasi significato che vada oltre l’oggetto della visione. Il mantra meccanico a due voci – quella viva del performer e la sua registrazione riprodotta elettronicamente – crea una base ritmica serrata che si deforma e si distende, che accelera e decresce, insinuandosi nell’attenzione di chi assiste come messaggio subliminale pronto a negare la propria stessa insistita negazione. Un’azione protratta fino allo sfinimento, che ruota – nel senso più letterale del termine – attorno ad un perno a due facce: da un lato la determinazione nell’indagare fin a dove poter spingere i propri naturali limiti fisici; dall’altro, la sfida di utilizzare il linguaggio del corpo e quello della parola per non evocare altro al di fuori del puro segno, privato di significante, in una comunicazione silenziosa che continuamente contraddice e afferma il suo opposto. I semiologi sono gentilmente invitati ad uscire.
Giulia Tonucci